C’è bisogno di “Oriente” nelle nostre storie?

Le storie che leggiamo, i film che guardiamo, quello che ci viene raccontato ha sempre un’impronta di fondo e ci lascia una sorta di imprinting, di propensione a un certo tipo di narrazione.
Lo stile con cui ci viene raccontata una storia è indubbiamente differente a seconda del genere, e non solo: anche la società, l’epoca, l’area geografica, influenzano le vicende stesse. La trama ricorrente delle nostre storie, intese come occidentali, ha al suo centro un eroe, o quantomeno un essere in quanto individuo, poiché il nostro tipo di società parte da un presupposto individualista. Solitamente questa figura si ritrova in una circostanza suo malgrado e deve abbracciare il proprio destino, per diventare quel “qualcuno” che tutti si aspettano diventi. E in tutto questo trovare lo spazio per sé e la sua felicità.
Così troverà la sua strada come Eroe compiuto.

Ovviamente non è l’unico tipo di storia esistente, tuttavia è uno di quelli più frequenti.
Il fulcro narrativo asiatico invece è differente e viene chiamato col termine giapponese Kishōtenketsu, che a sua volta deriva dal cinese qǐ chéng zhuǎn hé e in coreano è invece gi seung jeon gyeol.
A prescindere dal nome, la struttura pone le sue basi nell’antica letteratura cinese, per cui -ancora oggi- il cuore della narrazione sta nella coralità dei protagonisti. Raramente c’è un solo punto di vista che porta avanti i suoi pensieri, le sue paure, le sue evoluzioni, ma il concetto sta piuttosto nella forza del gruppo, nell’equilibrio tra più forze, nel compensarsi a vicenda perché da soli non si possono raggiungere le stesse vette che si possono raggiungere insieme ad altre persone.

In generale, va da sé che se vengono raccontate storie -per quanto ciascuna sia diversa dall’altra- che condividono lo stesso “spirito”, è inevitabile che queste storie riflettano un dato modo di pensare e viceversa, influenzino il modo di pensare di chi assorbe costantemente queste informazioni.
Questo principio chiaramente vale in ogni area.

Le nostre trame occidentali sono arrivate tempo fa in oriente e ultimamente viceversa: dopo anime e manga giapponesi, piano piano stanno arrivando anche i drama coreani… e attendo il momento in cui la mia conoscenza della cultura cinese sarà utile e di moda, ma è un altro discorso.
Perché ci stiamo appassionando a queste vicende? Cosa ci scuote?
Sicuramente avere un qualcosa di diverso da raccontare e da vivere attraverso le vite dei protagonisti, ci spinge a trovare un certo fascino in questa modalità narrativa.
Una trama dove anche l’altro inizia a essere importante, una storia dove ci sono persone che contano l’una sull’altra, potremmo dire che ci richiami il classico party nel fantasy, per esempio. Però anche lì c’è sempre uno che è un po’ più eroe di qualcun altro. C’è un confronto tra punti di vista diversi… spesso invece nella narrazione orientale, il focus è differente.

Il centro del discorso è che da una data situazione di partenza, che possa essere positiva o negativa, si sviluppa una trama che potremmo dire “ascendente“, con una tensione che culmina nel momento del “plot twist”, dopodiché bisognerà risolvere il tutto.
La risoluzione non è detto che sia tra l’altro positiva, altro cliché a cui non siamo abituati: in fin dei conti cresciamo un po’ cullati dal senso di happy ending, che invece non c’è nella cultura orientale.
Vuoi per gli anni di oppressione colonialista, vuoi per un concetto filosofico di fondo, dove un ribilanciamento non è necessariamente un “far finire le cose bene per tutti”, sta di fatto che il finale nelle storie asiatiche non è quello che per noi corrisponde a una conclusione positiva.

Perché dunque ci stiamo appassionando o interessando a questo genere di storie?
Dopo un’analisi così frettolosa non è che possiamo dedurre chissà quanto, tuttavia è lecito pensare che nel momento storico attuale, dove finalmente iniziamo a sentirci un po’ meno eurocentrici, e iniziamo a sentirci forse un po’ meno superiori del resto del mondo visto che la società è al suo stremo, forse serve guardare da un’altra parte. Non per forza un happy ending, non necessariamente un regolamento di conti.

Ma di prescelti ne abbiamo avuti tanti, e non siamo mai stati noi.

Forse abbiamo bisogno di imparare a contare gli uni sugli altri.

di Alessandra “Furibionda” Zanetti

Alessandra Zanetti
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