La paura abita il nostro inconscio. Un sentimento irrazionale, che alcune volte ricerchiamo con ostentato capriccio. L’adrenalina di un momento, un racconto spaventoso. Un mistero in grado di gelare il sangue, che rimaniamo ad ascoltare fino a tarda notte, finché non poniamo luce sull’ultimo angolo oscuro che lo avvolge.
Da piccola passavo ore a leggere o ascoltare i misteri. Alcune volte erano di fantasia, un intrattenimento leggero perché appartenente alla finzione. Altre volte, erano tanto reali quanto i pezzi di storia che studiavo tra i banchi di scuola. Quelli fatti di intrighi e moventi sanguinari.
Conobbi, così, quelle trasmissioni un po’ cupe condotte da Carlo Lucarelli su Rai3. Rimanevo incantata dalle immagini che scorrevano veloci e che ritraevano vecchie auto bianche o lenzuola scomposte poggiate sull’asfalto.
Tanti anni dopo, oggi nel 2024, mentre passeggiavo tra gli stand del Torino Comics, ho incrociato quello stesso narratore che mi raccontava così tanti incubi dalla televisione.
Mi sono avvicinata a lui, accolta da un sorriso gentile, per chiedere un’intervista non celando l’imbarazzo. Poi, nel mentre lo accompagnavo al suo stand, gli ho raccontato delle notti passate ad ascoltare le sue storie o degli eventi a cui avevo assistito a teatro, quando i gialli diventavano parte di uno spettacolo oltre il sipario.
E così, trovato un momento di privacy tra un evento fieristico e l’altro, Carlo mi ha raccontato del suo percorso professionale e del suo nuovo fumetto Julian, oltre che della sua vita da narratore anche come padre e marito.
Qui di seguito le sue parole, nella mia intervista a Carlo Lucarelli. Buona lettura.
Chi è Carlo Lucarelli?
Io sono un narratore, uno che racconta storie. Questa è la mia dimensione pubblica, se vuoi anche intima. Poi, contemporaneamente, sono diventato marito e padre: un’altra dimensione ancora, dentro la quale però continuo a raccontare storie.
Quindi, alla fine, sono un narratore.
Qual è il primo mistero di cui ti sei innamorato, tanto da spingerti a raccontarli e a farli ascoltare anche ad altre persone?
La prima volta che mi è successo era un mistero della fantasia. Avevo letto un romanzo di Giorgio Scerbanenco, I ragazzi del massacro (1968), un noir se vogliamo. Quando ho cominciato a leggerlo ho pensato che quella storia mi stava prendendo moltissimo, volevo vedere come andava a finire. Mi stava aprendo dei mondi importanti.
Alla fine quando ho chiuso il libro ho pensato di voler raccontare storie come questa. Poi dopo li ho incontrati realmente, i misteri, e mi sono occupato anche di misteri accaduti nella realtà.
Dall’altra parte della tua narrazione c’è un pubblico, spettatori e lettori, che rimane ore ad ascoltarti mentre racconti di misteri e di omicidi efferati. Cos’è che li spinge ad appassionarsi così tanto alle tue storie?
Noi che raccontiamo le storie in quel modo lì, facciamo tutti la stessa cosa. Quel modo lì significa:
“senza dire tutto e subito”.
Partiamo da un mistero, che è la prima cosa che ti aggancia. Un mistero è misterioso, il che sembra una sciocchezza detta così, ma vuol dire un mistero inquietante, che un po’ ti fa paura.
Che ti riguarda, perché magari è un mistero di qualcosa di realmente accaduto: le stragi, gli incidenti, gli omicidi. Ti riguardano perché hai paura, vuoi sapere cosa sta succedendo nel tuo paese.
Poi, è un mistero che non è risolto: non sai come potrebbe andare a finire. L’unica cosa che fa in modo che questo mistero cresca nella narrazione è che non ti racconto tutto subito. Arrivo fino a un certo punto e poi stacco e passo da un’altra parte. Questa si chiama suspense ed è quello che facciamo noi.
Io l’ho imparato recentemente questo concetto: ho due bambine, adesso hanno 12 anni, ma quando erano piccoline, quando toccava a me portarle a letto, mi chiedevano una storia e io gliela raccontavo. Non ho mai raccontato loro una delle mie storie, perché sono due bambine, sono piccine, devono dormire, ci devo convivere un po’ di anni senza che mi uccidano nel sonno! – ride – Allora gli raccontavo storielline del tipo: un cagnolino incontra un gattino, fanno la pappa e fanno la nanna. Solo che loro a un certo punto mi dicevano, proprio nel bel mezzo del racconto:
“Basta babbo, ci fai paura!”
“Come vi faccio paura?”.
“Sì perché fai quella voce”.
E quella voce era cominciare con: c’è un cagnolino – tono di voce più cupo – incontra un gattino – tono di voce ancora più cupo – aprono una porta… che è l’unico modo che conosco per raccontare le storie.
Ecco perché la gente rimane rapita. Intanto perché gli stai raccontando una storia importante: il mistero non è mai un mistero banale, altrimenti non serve a niente. Ma, soprattutto, perché fai quella voce e quella voce ti lascia sempre a bocca aperta.
Hai raccontato di delitti reali e delitti inventati, a quale sei più legato e qual è quello che ti ha instillato un po’ di paura?
Sono legato a tutte le mie storie. Ho raccontato storie inventate perché mi interessavano ed erano importanti. Ho raccontato storie reali per lo stesso motivo. Se mi chiedi dove mi sento più a mio agio, senza dubbio quando invento, perché almeno là posso concludere la storia a mio modo. Posso anche decidere che quella storia non mi piace e non la racconto.
Ma quando cominci a raccontare una storia vera non puoi inventare niente. Se si è conclusa male o non si è conclusa, non puoi concluderla tu e, soprattutto, ormai che ci sei dentro, per rispetto alla storia che stai raccontando, non puoi dire: “no, basta, grazie, lasciamo stare”.
Devi raccontarla!
Il mistero reale che mi ha appassionato di più… Tutte le storie che ho raccontato le ho narrate perché erano appassionanti e nelle mie corde. Ci sono tanti tipi di storie, anche quelle che non so raccontare, come quelle che riguardano i bambini. Però di solito ne scelgo due per rispondere a questa domanda: uno è il delitto di Francesca Alinovi, una professoressa del Dams di Bologna nel 1983, e l’altro è la strage di Bologna.
Con tutta questa esperienza, riusciresti a compiere il delitto perfetto?
No, non riuscirei a compiere un omicidio – ride – sì, in effetti, ho una grande esperienza!
Però, due appunti: quando ti occupi di omicidi nello scrivere romanzi, ad esempio, tratti l’assassino come una persona astratta.
Quando, invece, ti occupi di realtà e vedi quello che è accaduto veramente sul luogo di un delitto, non puoi pensare di prendere la parte dell’omicida. È orribile ciò che viene fatto a una persona che viene uccisa.
Hai affinato il tuo spirito analitico ai problemi della vita, cambiando il tuo approccio al mondo.
Sì, certo. Rimango ottimista ugualmente, anzi, correrei rischi senza pensarci. Però so come va il mondo e so quali sono i meccanismi che lo muovono. Proprio per questo so, anche, che non esiste il delitto perfetto ma solo indagini imperfette, come dice il comandante Garofano.
Se ho la sfortuna di beccare l’indagine perfetta, mi mettono dentro! Perché alla fine un errore è sempre possibile, altrimenti non ci saremmo noi scrittori di gialli. E se non ti hanno beccato è solo per un colpo di fortuna e non è detto che la fortuna ti assista sempre.
Parliamo di Julian, la graphic novel appena pubblicata, creata in collaborazione con Stefano Fantelli e Marcello Mangiantini ed edita per Cut-up. La storia è l’adattamento di un tuo racconto in prosa. Hai dato delle indicazioni specifiche per la trasposizione grafica?
No, non ho dato indicazioni. Julian, come hai detto, è nato come un racconto facente parte di un’antologia, dove ho messo dentro un po’ di cose che mi interessavano: raccontare una storia improbabile, impossibile ovviamente, di una testa che rimane viva, mozzata, e che nonostante tutto viaggia per l’Europa. Quindi una sfida narrativa. Mi sono posto dei paletti, degli ostacoli, volevo vedere come sarei avanti.
Ed è venuto fuori un racconto che mi è piaciuto molto, ma proprio molto, tanto da volerlo vedere trasposto in altre dimensioni. Ho incontrato Stefano e Marcello e ho deciso di farne un fumetto. Non ho dato indicazioni particolari, perché quello che io volevo era già contenuto nel mio scritto. Mi sono fidato di loro, perché conosco sia il lavoro di Stefano che quello di Marcello, per cui ero sicuro sarebbe venuto fuori qualcosa di bello.
Non mi ci sono messo più di tanto a spiegare la storia, perché cerco di non immaginare fino in fondo le cose. Non mi soffermo a immaginare, per esempio, esattamente i lineamenti e le facce dei miei personaggi, perché hanno una loro identità dietro una maschera. E le maschere, come i lineamenti, le mette qualcun altro.
Ho apprezzato in Julian che è un racconto che va molto indietro nel tempo, così elegante nei disegni.
Era nato tutto da un’antologia horror e chi ce l’aveva commissionata, una cara amica che aveva una casa editrice, voleva che avesse sfumature necrofile, ovvero che dovessimo andare a raccontare qualcosa di molto brutto.
E io ho pensato: creare un serial killer che abusa e mangia i cadaveri? Un’idea brutta, pesante, cosa vai a indagare lì dentro? No, voglio fare una cosa di questo genere, però in una maniera diversa. Ho pensato a una testa che si muove. Mi è venuta in mente la ghigliottina e poi si è aperto uno scenario che era quello della Francia durante la Rivoluzione.
Il Grand-Guignol, il teatro dell’orrore nasce lì, è così.
Se penso a un fantasma, ad esempio, mi viene in mente una figura con i boccoli, un vestito a crinoline, bianco, e richiamo tutte le suggestioni che ci possono essere.
Questa è una mia curiosità: nella gestazione di un racconto, qual è il primo passo che compi nel processo di scrittura? Mi spiego: hai in mente un giallo, un mistero, ma poi come procedere? Ti stupisci anche tu nel mentre che lo scrivi?
Gli scrittori si dividono in due categorie, dice Pulixi scrittore di gialli sardo: ingegneri e giardinieri. Che significa? Faccio la scaletta o non faccio la scaletta.
L’ingegnere è quello che costruisce tutto: prima di scrivere sa quello che accadrà. Ne ha già scritto le planimetrie.
Il giardiniere, come me, semina e poi osserva cosa viene fuori. Poi, quello che viene fuori lo modella. Io faccio così, ho in mente un bel mistero che mi piace, di cui vorrei raccontare la storia: ho in mente ovviamente un personaggio, un motivo per cui lo racconto e uno sfondo.
Una volta ho scritto la storia di un corpo senza testa e di una testa senza corpo. Era uno dei romanzi con il commissario De Luca. Quindi, comincio a costruire il mistero. “Non appartengono alla stessa persona.” Oddio, e allora? E cosa sarà successo? E io costruisco, costruisco e non ho idea di come andrà a finire.
Pagina dopo pagina dico: ma guarda che bello! E poi va là, non ci avrei mai pensato.
Scrivo, attacco tutti i post-it sulla porta del mio studio e poi, a volte, ho la fortuna di arrivare magicamente alla fine e altre volte no.
Mi blocco lì e passa anche parecchio tempo di disperazione a pensare “e adesso?”. Poi, fortunatamente, qualcosa arriva. Però lo scopro anch’io alla fine.
Carlo, cos’è che ti lascia senza Niente da Dire?
Cos’è che mi lascia senza parole? Tante cose. Soprattutto l’assurdità. Quando non riesco a capire che cosa c’è sotto.
Faccio un esempio.
Una volta ho raccontato la storia di una ragazzina di 14 anni, Carolina, che si è suicidata per via di una persecuzione subita sui social. Durante una festa ha bevuto troppo, le hanno fatto un po’ di foto e poi l’hanno massacrata. La cosa che più mi stupiva, però, per spiegarti il meccanismo, è che molte persone che neanche la conoscevano hanno cominciato a insultarla su internet. Gente anche adulta, di 50 anni se vuoi, che non l’avevano mai vista.
Per quale diavolo di motivo devi odiare tu, da casa tua, un’altra persona? Lei stava, non so, qua nel Nord Italia, magari tu stai in Sicilia, per dire, o dove sto io vicino a Bologna, e devi scrivere delle cose talmente orribili su una poveretta che poi arriva ad ammazzarsi.
Quello che mi lascia senza parole è l’assurdità, la mancanza di spiegazioni.
Nei romanzi, noi, una spiegazione ce l’abbiamo. Perché fai così? E poi vai indietro e scopri che c’era un motivo. Ma lì, bo… allora mi lascia senza parole perché non ci sono motivi. Se c’avessi davanti il tizio che scriveva questi commenti, allora le parole le avrei.
Gli chiederei di spiegarmi quale diavolo di motivo ha scatenato l’odio su una bambina che non ha mai visto in vita sua e di cui non gli frega niente.
È l’assurdità che mi lascia senza parole.
Miriam My Caruso