Editoriale: il peccato e l’espiazione dell’isolamento

Piegare le gambe su loro stesse, congiungendo le ginocchia su di un cuscino di velluto rosso. Incrociare le dita, stringendole talmente tanto forte da farne sbiancare i polpastrelli. Chiudere gli occhi e, a denti stretti, pronunciare: chiedo perdono, perché ho peccato.

Una scena che si è ripetuta talmente tante volte nei secoli da diventare un rito universalmente conosciuto. Come è universalmente nota l’associazione del peccato al disegno di Dio, il Dio di una qualsiasi religione, che definisce delle regole per un comportamento sano e retto.

Ma di peccato, spesso, le persone si nutrono per poter giudicare i peccati altrui. Alleggerire le proprie spalle, sentenziare sulle altrui coscienze. Così, sarà peccato ciò che è dissimile a noi, colui che si azzarda a compiere ciò che noi stessi non siamo in grado di raggiungere, per timore del pensiero di chi ci circonda.

Quindi, giungiamo ancora una volta le mani, in cerca di costrizione ed espiazione, perché abbiamo peccato, perché gli altri hanno anch’essi peccato. E cosa rimane, se non un laccio stretto ai polsi e la morale deviata alla ricerca delle sembianze e del profilo di Dio?

Si badi bene, di peccati da non valicare il mondo ne è pieno. Un dogma, quello più imponente sopra le nostre teste, ci dovrebbe esortare a non valicare la libertà altrui, quella che non nuoce ad altri esseri viventi. Purtroppo, però, i secoli hanno accumulato polvere e sangue su questo concetto. In tempi moderni ancora non rispettato.

In questo editoriale vorrei indagare velocemente su alcuni peccati (non tutti). Quelli che, ad oggi, privano della scelta e spezzano i sogni. Non parlerò, quindi, dei peccati reali, ma dei presunti tali, quelli che fanno male all’anima.

Accidia, la volontà di non avere volontà

melencolia durer

Inizialmente utilizzato per indicare l’indolenza del perseguire una vita contemplativa attiva, oggi è sinonimo di depressione e obliamento dietro le quattro mura della propria casa.

Perché è peccato provare malinconia, sentirsi alle volte come stracci da buttare. Socialmente, ci si sente ingombranti, inadatti e incompresi. Come se esistesse un modo corretto per respirare o fosse inammissibile fermarsi un attimo a pensare, comprendere cosa si sta scrivendo della propria vita sul diario che chiudiamo ogni sera sopra il comodino.

No, a mio avviso non è sbagliato sentirsi sbagliati. È errato permettere che il giudizio esterno ci possa togliere la libertà di lasciarsi andare, quando necessario, a quel non voler far nulla. Incrociare le braccia e smettere di lottare, per il tempo utile a trovare nuovi stimoli e comprendere che dove vi è melanconia, dall’altro lato vi sarà la luce di un nuovo giorno.

Lussuria, il cammino vietato dagli dei

La sessualità è l’argomento più ostico dei peccati. Quello che ancora oggi, in molteplici religioni, determina finanche la morte di chi esprime semplicemente la propria natura.

Che di natura e pulsioni siamo fatti tutti. Eppure dobbiamo metterci un dito sulle labbra, abbassare la testa e vergognarci, se i pensieri che formuliamo non sono concordi con quelli delle persone che abitano oltre le nostre porte. Si badi bene anche qua, lussuria intesa come libertà soggettiva, che non sopprima quella altrui.

E nell’essere liberi assieme agli altri, complici, ingiudicati nel proprio desiderio, con quale coraggio qualcun altro può giudicare e strappare dalle braccia quella magia estatica che è vita: respirare, nutrirsi, dormire, fare l’amore, farsi l’amore.

La lussuria è donna, è peccato, è quel serpente che scivola dall’albero stringendo la mela tra i denti aguzzi. O forse questo è solo un senso arcaico e restrittivo, che fa del piacere schiavitù sotto giudizio etico, morale, canonico, imposto da pochi.

Si confessi chi rifiuta le pulsioni altrui per paura di scorgervi le proprie.

Tristitia, l’ottavo peccato

Originariamente era previsto un ottavo vizio capitale, formulato dal monaco Giovanni Cassiano, ma assente nella lista di Tommaso d’Aquino: tristezza. Quel verme che scava nel cuore, divorandone gioia e sguardo verso il divino.

Dove vi è luce, risiede anche ombra. Dove c’è gioia, esisterà anche la tristezza. Ancora una volta, la libertà di provare sentimenti, che siano anche negativi, può rivelarsi liberatorio.

Gli uomini devono nascondere le lacrime, non si può mostrare la fragilità altrimenti si perde in mascolinità. Le donne, sono facili al pianto, deboli, da proteggere. Ed è così che ci si nasconde nelle caverne, a celare il pianto tra i muscoli e uscirne nuovamente virili. Le donne, tristi per facezie, del peccato ne sono sempre state colpevoli, quindi che ne parliamo a fare?

Poi, ci lamentiamo che non vi è empatia: ma come si può essere empatici, se non ci si può permettere la tristezza o la debolezza, quella mano che cerca aiuto in un momento di angoscia, bloccati nelle scelte?

Isolamento e angoscia nell’espiazione del peccato

peccati originali e moderni

In alcuni peccati moderni, che riflettono quelli originali ma con maggiori sfaccettature, si trova un senso di comunione sullo stesso piano di penitenza: l’isolamento.

È legge morale quella che impone a chi anela la libertà di espressione la regola del silenzio. Così, avviene l’isolamento, la repressione della voce, lo sconvolgimento delle maree del proprio pensiero, rinchiuso e bastonato dagli accusanti. Eppure il peccato era solo un pensiero.

Di peccati che non sono tali e vizi che riguardano la natura ne potrei scrivere fino al sopraggiungere dell’Apocalisse.

Sarebbe lì, alla volta del Giudizio Universale, che probabilmente cadrebbero come imposizioni di pochi alla soggezione di molti. È peccato esprimere il proprio diritto di gestione del proprio corpo, in tutti i sensi. Eppure ci manca quel gradino, quella piccola scintilla in grado di farci abbracciare l’un l’altra, concedendoci quei risvegli privi di macigni, consapevoli di poter camminare finalmente a testa alta.

In qualunque strada la volontà ci possa portare a sconfinare. Liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento.

Miriam My Caruso

 

Miriam Caruso
Miriam Caruso

Caporedattrice di Niente da Dire, è giornalista pubblicista dal 2018, nel campo nerd, divulgativo e musicale.
Nel 2018 fa il suo ingresso nel digital marketing grazie ad Arkys, verticalizzandosi nella SEO e imparando a mettere a punto strategie di marketing per le aziende.
Nel contempo si laurea in Comunicazione e Tecnologie dell’Informazione nel 2020, acquisendo la lode con una tesi antropologica dedicata al Cannibalismo e agli Zombie di Romero. Nel tempo libero, per non cambiare strada, scrive racconti e gioca a giochi da tavolo e canta, sotto la doccia, fuori, ogni volta che può.

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