Il buon totalitarismo ha bisogno, per poter funzionare, di controllare l’istruzione scolastica.
Le ragioni sono abbastanza evidenti: se si controlla l’istruzione, allora si controlla lo sviluppo del pensiero degli studenti, che poi diventeranno gli adulti cittadini dello Stato. Controllare l’istruzione, quindi, se non sta proprio in cima al decalogo delle regole del buon dittatore, occupa sicuramente le prime posizioni. Ma per noi europei, che a un certo punto abbiamo deciso che questa cosa dei totalitarismi proprio non ci piace (o almeno così ci siamo raccontati) l’istruzione deve essere più libera e meno eterodiretta possibile, in modo da garantire quella pluralità di pensiero che ai dittatori non potrà mai piacere.
È proprio in virtù di questa basilare dicotomia che, credo, sia il caso di parlare delle riforme scolastiche del nostro governo. Non per avanzare critiche per partito preso, ma piuttosto per far notare come, con lo schema che si sta progressivamente delineando, si stanno soffocando poco alla volta i fondamenti dell’istruzione democratica. Magari il corrente Ministero non lo fa di proposito (ce lo auguriamo tutti) ma, come in tutte le cose, quello che conta, più che l’intenzione, è il risultato che si ottiene. E personalmente, credo sia necessario quantomeno parlare della pericolosità del risultato che stiamo ottenendo.
La formazione e la selezione dei docenti
Non c’è scuola senza docenti, anche alla luce dello sbocciare delle nuove intelligenze artificiali. Il motivo è che, se anche avessimo una macchina meravigliosamente predisposta all’insegnamento, se l’istruzione deve aiutarci a sviluppare il pensiero allora ci serve che sia trasmessa da un essere pensante e non da una macchina sforna-conoscenze.
Se il corpo docente è centrale nell’istruzione, quindi, diventa allo stesso modo centrale capire quale sia il modo migliore per assumere individui che vadano a occupare questa posizione. Come Paese, siamo legati alla dinamica del concorso pubblico (almeno per quanto riguarda la scuola pubblica) e dunque è necessario superare una prova d’esame e posizionarsi sufficientemente in alto nelle graduatorie per ottenere una cattedra a tempo indeterminato. Il problema non è tanto legato all’idea del concorso, quanto alle modalità di accesso: è più che altro di quelle che si discute, perché continuano a cambiare senza ritegno ogni due/tre anni.
Secondo il nostro governo, che è l’orientamento che ci interessa, i docenti di ruolo dovrebbero avere una formazione specifica per la docenza. Questa formazione specifica, dovrebbe nascere dai cosiddetti corsi abilitanti: si tratta di un programma di studi articolato in corsi universitari e tirocinio che, alla fine, si conclude con una lezione di prova alla presenza di una commissione, che avrà il compito di valutarla. Non so se, con gli anni, io sia diventato uno di quei vecchi barbosi che non sono mai contenti, ma in questo sistema ci vedo due preoccupanti problemi.
Il problema del “metodo universale”
Il primo problema è l’intento di insegnare a insegnare o, in altri termini, stabilire quale sia un metodo universale d’insegnamento, che tutti i docenti sono tenuti a seguire e sulla base del quale gli può essere precluso l’accesso alla realtà scolastica.
In una società che fa un gran uso di belle parole come integrazione e di concetti profondi come l’impiego di strumenti che si adattino alle nuove generazioni, non è pensabile che si possa trovare un metodo globale. Questa costruzione schematizzata è propria di un regime, che ha la necessità di mantenere una fedele schiera di educatori che risponda alle sue esigenze, prima che alle esigenze del target dell’insegnamento.
Questa violenta standardizzazione non è adeguata a un contesto dinamico come la scuola che, per forza di cose, sarà sempre la prima a incontrarsi e scontrarsi con il cambiamento delle nuove generazioni. L’idea diventa poi ancora più malsana se accostata al fatto che questi corsi sono tenuti da professori universitari, cioè persone che sono state in una scuola l’ultima volta il giorno del loro diploma. Mediamente, per via del meccanismo delle supplenze, gli studenti di questi corsi hanno una consapevolezza sulla realtà della scuola di gran lunga superiore a quella di chi dovrebbe insegnargli come rapportarsi alla scuola e questo non può che produrre un cortocircuito fra la formazione e la realtà dei fatti.
L’elitarismo dei corsi abilitanti
Ancora più disturbante è la seconda criticità, questa parecchio grave, sollevata dal concetto dei corsi abilitanti: il loro elitarismo. Partiamo dal presupposto che questi corsi hanno un costo e questo costo, per uno studente che ha appena concluso un ciclo di studi completo (triennale e magistrale) obbligatorio per accedere alla docenza, può diventare proibitivo. Parliamo di cifre che si aggirano fra i duemila e i duemila e cinquecento euro nelle università pubbliche, una cifra che non può che trasformare la docenza in una professione elitaria, che può essere raggiunta solo da chi se la può permettere.
Al primo aspetto economico, si aggiunge il fatto che questi corsi sono a numero chiuso e l’accesso è garantito sulla base di punteggi ottenuti acquisendo titoli accademici: significa svolgere master, prendere altri titoli di studio e, in generale, spendere altri soldi.
I corsi abilitanti sono diventati obbligatori dal primo gennaio 2025, rendendo effettivo un elemento preoccupante: saranno soltanto gli appartenenti a determinate classi sociali a poter diventare docenti, perché soltanto loro se lo potranno permettere.
Questo era un elemento chiave della riforma Gentile (torniamo all’idea fascista di istruzione) perché per qualsiasi regime diventa importante far sì che l’istruzione sia in mano a chi, dal regime, trae vantaggio. Stiamo trasformando, di fatto, il pubblico impiego in qualcosa di riservato a pochi fortunati, ai quali sarà detto esattamente in che modo devono lavorare, che strumenti devono usare e che nozioni devono comunicare. Stiamo privando la scuola della sua capacità di mettere i giovani davanti al pensiero.
Dio non voglia che tornino i programmi
Quando andavo io a scuola, i miei docenti avevano, nella loro attività didattica, uno spazio di manovra pari a quello di un SUV dentro a uno scantinato. Questo perché erano tenuti a seguire i programmi ministeriali e, quindi, dovevano obbligatoriamente stare dietro a ciò che il ministero aveva deciso dovessero insegnare.
Fortuna ha voluto che, dal 2010, si sia deciso di abolire questo tremendo diktat centralizzato: oggi i docenti sono chiamati a svolgere un lavoro molto più corposo ma anche più utile, dovendo, di anno in anno, strutturare un progetto educativo che si adatti agli studenti a cui si riferisce. E questo tenendo conto sia dell’indirizzo scolastico che delle specificità degli studenti per singola classe, in modo da offrire un piano educativo effettivamente efficace.
A quanto pare, però, il corrente Ministero è orientato verso una revisione del sistema. Non sappiamo se reintrodurrà di nuovo i programmi ministeriali, ma sappiamo che ci siano alcuni orientamenti specifici. Quello che senza dubbio ha fatto più discutere, è l’inserimento della Bibbia fra i testi di studio fin dalla scuola primaria, in modo da consentire di “comprendere i valori della società in cui viviamo”. È qui che i problemi iniziano a moltiplicarsi e tutto l’insieme di riforme riguardanti l’istruzione diventa preoccupante.
Una visione centrata sull’Occidente
Partiamo con il dire che si costruisce, in questa sede, una presunzione di fondo nell’affermare quali siano le radici culturali del nostro paese. Queste vengono accostate al latino, che sarà introdotto come opzione alle scuole medie, e alla Bibbia, che a quanto pare è fondamento culturale dell’Italia, insieme al mito greco e romano. Si ignorano volutamente le nostre radici germaniche di epoca medievale e, in generale, la storia della mescolanza dei popoli europei che risale fino all’epoca romana. Sorvolando, poi, sulla chiara esistenza antitetica del mito classico con la Bibbia, viene da chiedersi se la sua introduzione nella programmazione ordinaria non sia più un modo per ripescare quegli studenti che sono esentati dall’ora di religione per richiesta della famiglia di appartenenza.
Non è poi chiaro per quale motivo la storia dell’Europa, così come lo studio dei grandi autori della nostra letteratura, non sia elemento sufficiente a incontrare la nostra cultura e necessiti del supporto dei testi religiosi. Finiremo per inventare le scuole bibliche, in contraltare a quelle coraniche, facendo finta che questo sia un elemento della cultura italiana; su questo fronte, possiamo dunque restare in attesa di nuovi patti lateranensi che, a questo punto, sembrano sempre più necessari.
L’aspetto più grave, però, è forse il fatto che anche in questo si delinea l’intenzione di determinare in maniera centralizzata cosa gli insegnanti devono insegnare: come fa notare il pedagogista Franco Lorenzoni, nessun ministro si è mai preso la briga di dire ai docenti cosa far leggere ai suoi studenti. Questa presa di posizione senza precedenti è di una gravità inaudita, soprattutto quando è mirata a riportare la scuola su una visione centrata sull’Occidente, in un contesto che vede le classi popolarsi sempre più di frequente di studenti provenienti da altri universi culturali.
Paradossalmente, inoltre, si lasciano indietro quegli studenti che in Italia ci sono nati e cresciuti e che quindi avrebbero, al contrario, bisogno di conoscere culture diverse dalla loro, e di farlo proprio all’interno del contesto scolastico, in modo da non trasformarsi in adulti poco aperti all’inclusione.
Dall’inclusione all’assimilazione
Traspare in modo chiaro da quest’idea d’istruzione promossa dal Ministero, come si stia cercando di bloccare il già farraginoso processo mirato alla creazione di una società inclusiva per dirottarlo verso uno stato assimilatore. La differenza può sembrare sottile ma, in realtà, si tratta di un marcato cambio di rotta che fa l’occhiolino ad alcuni processi storici di gestione migratoria avvenuti soprattutto in Francia nel corso del Novecento.
Mentre quando parliamo d’inclusione, infatti, intendiamo la possibilità di costituire un organismo societario in grado di adattarsi per riuscire ad accogliere persone provenienti da contesti diversi, l’idea alla base dell’assimilazione è quella di obbligare chi proviene da tali contesti ad adattarsi a quello di arrivo. Parliamo di religione, cultura, educazione e diversi altri aspetti del modo di vivere.
Su questo discorso, è importante non lasciarsi trascinare in basso sul piano della legalità: è chiaro che, alla base di qualsiasi fenomeno migratorio, ci sia l’accettazione e il rispetto delle leggi in vigore nel paese d’arrivo, ma questo non vuol dire essere assimilati culturalmente ma significa soltanto essere persone civili. Si può far notare, a tal proposito, come la Francia, che ha da sempre adottato una gestione assimilatrice della migrazione, sia anche il paese che ha prodotto fenomeni di ghettizzazione come le banlieue, così come sia diventato il centro, e lo ricordiamo tutti, di fenomeni terroristici derivanti proprio dall’emarginazione sociale che conduceva facilmente alla radicalizzazione.
Non dobbiamo dimenticare, infatti, che fallire nel processo integrativo finisce sempre per condurre verso un inevitabile scontro, che può essere avviato sia dalle persone emarginate che dallo Stato stesso, come tristemente accaduto con i totalitarismi europei.
Siamo uno strumento nelle mani di…
All’inizio degli anni Venti, Benito Mussolini riuscì a raccogliere intorno a sé un nutrito gruppo di facinorosi, violenti, stanchi della povertà e massacrati dalla guerra. Li direzionò contro le proteste sociali, dimostratesi fino a quel momento inconcludenti, riuscendo così a guadagnarsi anche il favore di quella classe borghese che voleva riprendere a produrre ricchezza dopo la guerra, senza doversi preoccupare delle necessità della classe operaia. Mussolini prese in mano il potere aizzando una guerra tra poveri, usando i diseredati della società come arma contro loro stessi.
Oggi, il nostro governo sta costruendo un sistema d’istruzione che sembra avere lo stesso obiettivo. Sta direzionando docenti e studenti verso la formazione di un pensiero unico, sia riguardo quali siano le radici della nostra società che riguardo a ciò che dovremmo studiare, leggere, ricordare e avere come parte della nostra formazione. Si sta costruendo, da un lato, una classe dirigente elitaria, con massicce barriere all’ingresso e il compito di difendere una matrice di pensiero e, dall’altro, una schiera di studenti non più da educare (secondo l’accezione latina di ex ducere, cioè tirare fuori) scoprendone i talenti e valorizzandone le capacità, ma da riempire di nozioni guidate che li portino verso una specifica visione del mondo.
Persone formate in questa prospettiva, che non possono accedere alla libertà didattica dei loro docenti e sono quindi ingabbiate in una visione armonizzata del mondo, non possono che diventare pericolosi oppositori di tutto quanto è diverso. Diventeranno quelli che individuano il nemico in chiunque non condivida quella loro stessa visione. E un giorno, diventati adulti, prenderanno parte a quelle elitarie classi dirigenti con il compito di preservare il pensiero unico. O, in alternativa, si trasformeranno in quei poveri pronti a farsi la guerra tra loro.
di Emmanuele Ettore Vercillo