Il destino della cultura

Il destino. Ho pensato un po’ a cosa scrivere in questo articolo e, a dire la verità, le opzioni erano tante. Avrei potuto parlarvi della forza avuta da questo tema in ambito letterario, ad esempio, o raccontarvi del timore che il fato incuteva nella cultura dell’antica Grecia, con la sua ineluttabilità raccontata in capolavori come l’Edipo re.

Poi però ho deciso di prendere un’altra strada, per raccontarvi qualcosa che mi sta più a cuore. Voglio parlarvi del destino che la nostra società sta riservando alla cultura: alla sua evoluzione, il suo mantenimento e la sua trasmissione e voglio parlarvene perché credo che oggi, come cittadini consapevoli, dovremmo fare attenzione al fatto che la cultura stia diventando una questione puramente competitiva e da ricchi.

Quindi mettetevi comodi, fatevi un bel caffè e iniziamo, perché di cose da dire ce ne sono tante.

Le nozioni non fanno cultura

cultura

Partiamo dal primo luogo del sapere (o che almeno dovrebbe esserlo) fra quelli che incontriamo nella nostra vita: la scuola. Ora, non voglio unirmi al grande coro di chi racconta come la scuola italiana sia un disastro, anche perché di voci ce ne sono già tante, ma se vi è capitato di averci a che fare di recente vi sarete accorti che c’è qualche problema.

Iniziamo col dire che la scuola funziona con uno studio programmatico o, in altri termini, ha come obbiettivo quello d’infarcire i suoi studenti con una serie di nozioni di cui loro non vedono l’utilità, principalmente perché nessuno si prende la briga di spiegargliela.

Potreste rispondermi che non esistono più i programmi ministeriali, i docenti hanno un certo margine di libertà d’azione, e in parte avreste ragione. Solo in parte però perché, se il corpo docente è prevalentemente composto da persone che hanno lavorato per anni seguendo dei programmi predefiniti e i libri di testo per la didattica (nessuno escluso) sono strutturati per programmi definiti, la realtà è che il docente può soltanto scegliere il programma che gli piace di più, ma non ha tutta questa libertà d’azione.

Il problema è che le nozioni non fanno cultura: conoscere una serie di fatti per rispondere a una serie di domande e prendere un voto soddisfacente non vuol dire avere cultura. Il motivo è che la cultura si costruisce mettendo le cose insieme, stimolando la curiosità, la creatività e trovando la chiave giusta per capire non solo un determinato argomento, ma anche le riflessioni laterali che comporta.

Ma la nostra scuola non ambisce a obbiettivi, preferendo puntare sulle valutazioni. L’obbiettivo di un docente è far sì che i suoi studenti strappino una sufficienza, così potrà sentirsi soddisfatto del suo lavoro. Be’, vi assicuro che un otto non significa essere padroni di una materia e questo non perché i docenti siano larghi con i voti, come spesso si dice comodamente seduti al bar, ma perché il metodo si basa su una serie di memorizzazioni mirate al superamento di un test.

Ma pur ammettendo che uno studente sappia che Bradamante, nel quarto canto dell’Orlando Furioso, duelli con il mago Atlante per liberare Ruggiero, siamo sicuri che sia anche capace di rendersi conto delle implicazioni per la parità di genere portate avanti da un romanzo cavalleresco del XVI secolo in cui una donna, in armatura da cavaliere, salva un uomo prigioniero nella torre di un mago?

La scuola costa e non solo per gli studenti

costo studiare

Lo sappiamo bene: studiare è una possibilità che non tutti hanno, purtroppo, molto spesso per ragioni economiche. Ma quando si guarda a un quadro più ampio, ci si rende conto che anche insegnare è diventato una questione di soldi.

Se non ci credete, vi racconto che oggi, per diventare docenti, è necessario non solo terminare il normale percorso di studi universitario, ma anche frequentare un corso abilitante che garantisca l’accesso a un concorso. Questi corsi hanno costi variabili che superano i duemila euro, ai quali spesso si aggiungono spese di segreteria per la valutazione della domanda e l’esame finale.

Oltretutto l’ingresso è a numero chiuso: vuol dire che si stilano delle graduatorie in cui i punteggi sono determinati dai titoli di merito (master, lauree o certificazioni riconosciute) che hanno a loro volta un costo di almeno cinquecento euro ciascuno. Ma se anche doveste avere l’abilitazione, vi resterebbe poi da sostenere il concorso pubblico, per il quale si paga l’accesso.

Ci sono poi i costi del precariato: stando alle recenti normative, per inviare una domanda di supplenza a una scuola, bisogna attendere che sia pubblicato un annuncio di ricerca supplenti sul sito della scuola stessa. Ne consegue che, il docente precario, per trovare un posto ha due alternative: o spulciare ogni mattina il sito di tutte le scuole della provincia, inviare il suo CV nel remoto caso in cui trovi un annuncio e poi sperare nella sua buona stella, oppure iscriversi a un servizio privato, a pagamento, che svolgerà quest’attività al suo posto con l’ausilio di software automatizzati. Prima che lo chiediate: no, non esistono, ad oggi, piattaforme pubbliche pensate per raccogliere tutte le ricerche di supplenza delle scuole pubbliche nazionali.

Se a tutto questo aggiungete i costi dell’università, capite da soli che non tutti hanno in tasca abbastanza soldi da diventare insegnanti e questo è un problema. In pratica, stiamo affidando la scuola non a chi ha una maggiore preparazione o una migliore attitudine all’insegnamento (entrambi elementi misurati marginalmente), ma a chi può permettersi economicamente di fronteggiare questa lunga trafila.

Però fra corsi abilitanti, concorsi e conteggio dei CFU a nessuno è passato per la testa di valutare l’attitudine psicologica dei docenti nell’imbarcarsi in una professione così essenziale e così influente sui ragazzi del nostro paese. Si è solo pensato che fare un paio di esami in antropologia e psicologia fosse più che sufficiente.

A tutto questo, si aggiunge ovviamente la madre di tutte le assurdità: non si può essere docenti di ruolo senza abilitazione e concorso, ma si possono fare supplenze anche annuali. In pratica, un docente precario lavora come insegnante in modo da permettersi di pagare qualcuno che gli dica che può fare l’insegnante. Però, nel frattempo, la scuola non si aggiorna, non va avanti, i docenti invecchiano e faticano ogni anno di più a capire il linguaggio dei loro studenti e la distanza continua a farsi sempre più ampia, fino a che non arriverà ad essere un divario incolmabile.

Ma poi, perché studiamo?

studiare

In una delle prime lezioni che ho tenuto in una classe, uno studente mi chiese perché dovesse studiare Dante: in fondo è morto diversi secoli fa, probabilmente conoscerlo non gli cambierà la vita e scriveva pure in una lingua estremamente lontana dalla nostra. In questa domanda, ci vedo il più grosso dei problemi culturali del nostro paese: ci raccontiamo di voler promuovere lo studio, ma non ci è nemmeno chiaro quali siano gli obbiettivi dello studio.

Se guardate alla vostra esperienza, quella delle persone a voi vicine o date una spulciata ai percorsi proposti dalle università, vi renderete conto che non si studia più per scopi culturali: noi studiamo qualcosa di finalizzato al lavoro, perché il reale scopo è la produttività. Addirittura, quasi tutti gli atenei del paese, nelle pagine di presentazione dei loro corsi di laurea, hanno una lunghissima sezione (di solito fatta di testi costruiti con l’angosciante tecnica della supercazzola culturale) interamente basata sugli sbocchi professionali del corso.

Ora, non voglio addentrarmi in polemiche anticapitaliste, ma credo che, nel momento in cui in una società sono le aziende a dettare la linea, a dire quale cultura va bene e quale va messa alla porta, allora c’è qualcosa che non va. Questo percorso ci ha trasformato in una società estremamente “scientificizzata”, che pretende di misurare tutto parametricamente e renderlo oggettivo.

Il problema è che il mondo non è quasi mai oggettivo e quindi, se iniziamo a instillare nei giovani l’idea che ciò che sceglieranno di studiare debba dipendere da un calcolo fatto a monte e basato su ciò che serve, fra dieci anni avremo una nuova schiera di precari che, finita l’università, ha scoperto che le esigenze del mercato del lavoro sono cambiate.

Potremmo invece costruire un esercito di giovani che hanno scoperto ciò che li appassiona, l’hanno studiato e sono così riusciti ad aprire la loro mente abbastanza da riuscire a trovarlo un lavoro. O inventarselo, come più volte è accaduto nella storia.

Quale destino per la cultura?

destino cultura

I panni della Sibilla non mi si addicono troppo, ma voglio spendere comunque queste ultime righe per regalarvi una piccola previsione.

Se la situazione per i docenti continuerà ad essere così angosciante, vi garantisco che anche chi nutre una vera passione per questo lavoro (e qui mi permetto d’inserirmi nel mazzo) deciderà di lasciar perdere. E lo farà perché nessuno vuole vivere un’esistenza di precariato, facendo un lavoro che, credetemi, richiede un enorme ammontare di sforzi invisibili e il tutto per uno stipendio che al massimo non è poi così malvagio.

Di pari passo, i nostri studenti diventeranno sempre più disinteressati e i nostri programmi belli e strutturati serviranno solo a prendere polvere, perché nessuno li ascolterà davvero. Rischia di uscirne fuori una società sgangherata, che continua a seguire la direzione dettata da altri perché non ha gli strumenti per costruirne una sua.

Però magari mi sbaglio. Forse, i miei sono solo i deliri di un pazzo e, alla fine, va tutto benissimo così.

di Emmanuele Ettore Vercillo

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