Nel 2025 ci tocca ancora spiegare che “genere” non è una malattia tropicale. C’è chi ne fa battaglie arcobaleno, chi lo usa come spauracchio per raccattare voti, chi crede che il gender sia un Pokémon. Se ne parla ovunque, ma sempre con lo stesso tono: o slogan, o scomunica. Nel mezzo, ci siamo noi. Confusi, accesi, divisi. E stanchi. Tanto stanchi.
Mascara, CEO e traumi messi in piega
Nei K-drama piangono tutti: uomini, donne, gatti randagi. E lo fanno bene, in 4K e con la luce giusta. Gli uomini sembrano fatti di seta e ferite emotive, le donne dominano aziende con un tacco solo. Ma fuori dallo schermo? Non è tutto oppa quello che luccica. Il patriarcato morde ancora, solo con un rossetto più discreto. Anche sugli uomini. Il genere, in Corea, è bello finché vende. Fluido, sì. Ma solo se non disturba.
Cina: l’arte è ambigua, la realtà è censura
L’opera di Pechino celebra da secoli uomini in ruoli femminili, con movenze e voce da far invidia a qualsiasi diva. Poi però arriva la realtà: Addio mia concubina (1993), film capolavoro e tragedia queer, viene bandito. Troppo vero, troppo scomodo. Omosessualità punita, uomini “effeminati” cancellati dai media. In Cina, il teatro è tollerato se resta palco. Se diventa carne e vita? Zittito.
Giappone e Occidente: due eleganze che fuggono il problema
Il Giappone sublima tutto: incornicia l’ambiguità, piega in origami la diversità. È il Paese dove puoi essere un onnagata sul palco ma invisibile nella burocrazia.
E noi, cari occidentali? Beh, noi siamo nel mezzo di un’orgia ideologica a base di “gender theory”, “cancel culture” e bagni neutri. Se da un lato moltiplichiamo le etichette come fossero gusti di gelato (genderfluid demiromantic kin what?), dall’altro ancora pubblichiamo testi dove il “gender” è trattato come una minaccia per l’umanità. Gente che pensa che l’identità di genere sia un’influenza stagionale, da debellare con un po’ di vitamina D e tradizionalismo. O una sfera poké.
Non stiamo capendo
La verità è che non stiamo capendo il punto. Il genere non è una miniera d’oro ideologica né una deriva postmoderna. È un’esperienza umana, piena di confini porosi, tra ciò che senti e ciò che ti impongono. È un vestito che cambia, a volte troppo stretto, a volte senza taglia. È un teatro in cui siamo attori, spettatori e drammaturghi – e chi non se lo scrive da sé, spesso finisce per morire in scena.
Sarò noiosa, lo dico sempre, ma… Serve equilibrio.
Tra chi lo strumentalizza e chi lo demonizza.
Tra chi lo spettacolarizza e chi lo nega.
Tra chi ne fa un identikit e chi lo tratta come un furto d’identità.
Il genere non è una guerra culturale, né una moda.
È un diritto ad esistere senza chiedere permesso.
Ogni persona che si interroga sul proprio genere non cerca “attenzione”. Cerca chiarezza. Cerca salvezza. Cerca un posto dove non dover spiegare tutto da capo ogni giorno. Dove non serve difendersi per esistere.
E invece – in Italia, in Francia, in ogni bar da colazione e sotto i commenti su Facebook – ci sono ancora quelli che ridono se usi il “neutro” e dicono cose tipo: “Ma allora anche io mi sento un comodino, devo avere i miei diritti?”.
No, caro. Non sei un comodino. Sei solo molto comod3 nel tuo privilegio.
Il genere ti ha mai messo in discussione davanti a un medico, a un datore di lavoro, a un prete?
No? Allora ascolta in silenzio un attimo.
Quello che non capiamo è che il gender non è solo una “questione identitaria”. È anche una questione poetica. È una storia raccontata con cicatrici, desideri e parole sbagliate. È il coraggio di vivere fuori dal binario, quando tutti ti urlano “torna in stazione!”
E quindi sì: il genere è una cipolla. Fa piangere, fermenta, a volte sa di rancido. Ma se lo cucini bene, dà sapore a tutto.
E finché ci sarà una sola persona che non può camminare a testa alta per come si sente dentro, allora la battaglia non è finita.
Perché il diritto a dire “chi sono” – senza spiegazioni, senza permesso – non è un lusso.
È il minimo sindacale dell’essere vivi.
di Alessandra “Furibionda” Zanetti