C’era una volta lo stress

«Secondo me, il remake non è poi così male».

Enrico parla mentre guida, la mano sinistra sul volante e la destra che si agita nell’aria per dare più enfasi alle sue parole. Io fisso la strada davanti a noi, cercando di concentrarmi su qualcosa che non sia il navigatore, Enrico non ama guidare e si perde facilmente.

«Denzel Washington funziona alla grande», continua. «E poi, dai, l’originale è epico, ma è anche… Lento. Ci sono scene che oggi non reggerebbero più».

«Non reggerebbero più?», ripeto piano, cercando di non pensare al sudore freddo che mi scorre lungo la schiena e la voglia di estrarre la rivoltella.

«Sì. Non dico che sia brutto, eh. Ma sai com’è, il cinema cambia. Il pubblico cambia. Ci si evolve, non fare il dinosauro!».

Annuisco, anche se non sono sicuro di aver davvero capito tutto quello che ha detto. L’auto si infila nel traffico come un proiettile in un tamburo, scivola dentro senza colpa, un groviglio di fari rossi come strisciate di sangue sul pavimento di un saloon che si riflettono sul parabrezza. Ho la sensazione che l’asfalto ondeggi sotto di noi, che la macchina sia un cavallo in balia delle correnti.

Mi passo una mano sulla fronte. È umida. Enrico mi lancia un’occhiata veloce, poi torna a guardare la strada.

«Tutto bene?», chiede, mentre cambia corsia con una sterzata brusca.

«Mai stato meglio».

Non è vero. Non va bene per niente.

Abbiamo passato tutta la giornata in ufficio, tra riunioni inutili, scadenze impossibili e grafiche, grafiche fatte per altri, non per i miei progetti, per altri progetti. E poi la fiera: gente che parla, che discute, spinge e si ferma, poi riparte e ti blocca.

Forse per emulazione, ora siamo bloccati nel traffico del rientro. Sto meglio se c’è il tavolo di uno stand tra me e la gente.

«Comunque», riprende Enrico, «quello che la gente non capisce è che I Magnifici Sette del ’60 non esisterebbe senza I sette samurai. Cioè, è proprio la stessa storia, quindi perché demonizzare un remake più fresco. C’è pure D’Onofrio».

«Lo so». La mia voce esce bassa, quasi un sussurro.

«Voglio dire, se accetti che il film del ’60 sia un rifacimento di Kurosawa, perché non puoi accettare che anche quello nuovo abbia il diritto di esistere? Diamogli una possibilità».

Il dibattito scorre come piombo a mezzogiorno, Enrico sa che potrà urlare quanto vuole, ma dentro di lui sa anche che il remake de I Magnifici Sette è solo una scusa per fare soldi. Non riuscirà mai a convincere nessuno del contrario, nemmeno sé stesso.

La macchina sobbalza su una buca. Mi aggrappo al maniglione sopra il finestrino, il cuore che accelera, il duello incalza…

«Il tema della giustizia, la comunità che si unisce contro un male più grande… Sempre attuali. Perché esimersi dal riparlarne ciclicamente? Anche con i remake».

La sua voce sembra lontana. Il battito nelle orecchie è più forte, sento una diligenza lontana.

«Accosta».

«Eh?».

«Accosta».

La mia voce è ferma, ma tesa. Lui mi guarda di nuovo, confuso, poi obbedisce, frenando bruscamente sul lato della strada, gli speroni tintinnano.

Appena la macchina si ferma, spingo la portiera e mi piego fuori, il gelo della sera che mi colpisce in pieno viso e vomito tutto quello che ho ingerito dal 1998 a quel momento.

Enrico non dice nulla, si gode i rumori.

Mi rialzo, appoggiandomi alla portiera, lui mi guarda. Faccio un cenno con la mano, come per dire che va tutto bene. Poi faccio:

«Stress».

Lui annuisce piano. Non serve dire altro. Accende la radio, abbassa un po’ il finestrino, e ripartiamo. Nessuno dei due parla più dei Magnifici Sette, ma canticchiamo la colonna sonora.

Quella è sempre la stessa.

di Daniele “Il Rinoceronte” Daccò

Daniele Dacco
Daniele Dacco
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