Da piccoli, molti tendono a ricercare la propria coperta di conforto e conoscenze nelle storie provenienti dagli ambienti con cui sono in contatto: fumetti, romanzi, racconti, cinema.
Similmente, in tenera età, iniziai a sfogliare i primi albi di Dylan Dog, rubati dagli scaffali tinti di nero dei miei fratelli. Consunti dalle troppe e maldestre letture, dalle copertine mostruose, li leggevo con quel coraggio di chi vuole sfidare le proprie paure e ne rimane, invece, terribilmente affascinato.
L’inquietudine dietro quelle pagine in bianco e nero mi attirava a volerne sempre di più: conoscere quel misterioso ragazzo che era l’indagatore dell’incubo e lasciarmi trascinare nel buio e poi, oltre, verso la luce. Perché gli incubi esistevano, ma poi ci si svegliava sempre provando sensazioni liberatorie.
Così, quando conobbi Barbara Baraldi, ho compreso che quell’amore per il dark e l’oscurità erano elementi condivisi, tra letture e passioni che ci portavano a essere entrambe orgogliosamente Dylaniate. «Siamo due streghette» mi ha sussurrato mentre mi stringeva le mani nel concedermi due chiacchiere sul nostro mondo in comune, un’intesa che mi ha lasciata piacevolmente felice.
Di seguito, la nostra intervista fatta durante il Lucca Comics and Games 2023. Buona lettura.
Barbara Baraldi, dalla passione per il dark all’incontro con Dylan Dog
Raccontati, chi è Barbara Baraldi?
Sono scrittrice di thriller e sceneggiatrice di fumetti, da maggio 2023 sono la nuova curatrice di Dylan Dog.
Come nasce la tua passione per l’horror e il dark?
Ci sono nata, diciamo. È qualcosa di innato, ho sempre cercato il lato oscuro delle cose. Oscuro è spesso considerato brutto o sbagliato, mentre invece oscuro è solo quello che non sveliamo. Quindi ciò che è più segreto, dentro di noi.
Hai accennato in un’intervista che, grazie a Dylan Dog, sei riuscita a sorpassare lo scoglio della timidezza, in che modo?
Perché mi sono sentita capita e vista. Dylan Dog ha affrontato tematiche che oggi, magari, è normale trattare, come quella della diversità, del sentirsi invisibili. Però, quando ho cominciato a leggerlo all’inizio degli anni ‘90, non era una cosa così scontata. Mi sentivo di vivere ai margini, in un mondo in cui tutti erano protagonisti, mentre la mia timidezza cronica non mi permetteva di farmi vedere.
Poi ho trovato Dylan e mi sono sentita subito a casa.
Chi è per te Dylan Dog come personaggio, sia quello di ieri che il contemporaneo.
Dylan Dog è Dylan Dog. Io invito a leggerlo e a scoprirlo. Non amo definirlo con le parole, perché si definisce proprio con le emozioni che ti fa provare attraverso le sue storie, quindi scopritelo!
Da fan di DyD a curatrice per Bonelli
Parliamo del tuo percorso di curatrice di Dylan Dog. Hai ricevuto la chiamata a ricoprire tale ruolo dopo che, da fan di Dylan Dog sei entrata nel team di Dylan Dog per poi diventarne, appunto, curatrice. Quanto è stata forte l’emozione che hai provato e come stanno andando questi mesi?
È stato molto emozionante e dopo 11 anni che scrivevo da scrittrice e, come giustamente hai detto, ancora prima come lettrice, fan dylaniata, è stato come abbracciare tutte e tre le parti di me. Curatrice, mi piace usare questa parola perché ha a che fare con la cura. Questi mesi sono stati sicuramente entusiasmanti, ho fatto degli orari impossibili per arrivare qui a Lucca col primo albo già a pochi mesi dalla curatela, interamente concepito in questa fase. Questo significa che dalla sceneggiatura e ai disegni, mentre si lavorava al resto, siamo riusciti a crearlo in tempi brevi, quando le aspettative di completare un tale lavoro erano previste tra circa un anno (ho iniziato a maggio ma parlo di una storia interamente concepita da zero).
E, addirittura, non ne abbiamo concepita una, bensì tre, perché questa storia fa parte di un ciclo tematico: storie autoconclusive ma che parlano di una tematica comune, ovvero un incubo contemporaneo che è quello dell’intelligenza artificiale.
Questi primi mesi sono stati, diciamo, montagne russe.
Ispirazioni oscure, da Anne Rice a Edgar Allan Poe
Hai un modo di scrivere e di trattare l’horror molto onirico, anche nelle sceneggiature che hai concepito per lo stesso Dylan. Da cosa trai ispirazione? Che immagini hai?
Io sono sempre stata attratta dalla letteratura che aveva a che fare con il mistero e che mi permetteva di dialogare con il mio subconscio, quindi da Tiziano Sclavi, con Dylan Dog e i suoi romanzi, a Edgar Allan Poe, Lovecraft. Amo anche la poesia, Cesare Pavese, Antonia Pozzi. Da King fino ad Anne Rice. È importante leggere tanto, guardare tanti film, perché diventano ciò di cui ci nutriamo, diventano parte di noi. Li assimiliamo e li trasformiamo in scrittura. Ciò che voglio fare è continuare ad assimilare storie, ma anche canzoni, perché può essere anche una canzone la fonte di ispirazione, la contemporaneità, quello che ci fa male, quello che ci fa arrabbiare, quello che ci fa paura. Tutto questo.
Infatti, tornando alle canzoni, io ho dorato l’albo di Dyd Jenny, dove ho trovato una narrazione psicologica profonda, che lascia spazio a molte riflessioni.
Assolutamente, anche perché Jenny è una canzone per me importante. Vasco nel ‘77 ha parlato di depressione, considerata uno stigma sociale, e anche il fatto di andare dallo psicologo era visto come una vergogna. Lui ha parlato proprio di come la mente ci può fregare.
Poter, quindi, raccontare la mia canzone preferita in assoluto di Vasco sulle pagine di Dylan è stato un grande onore e privilegio e lo è stato ancora di più quando Vasco ha amato la storia e ha condiviso un post in cui parlava di quando è morto suo padre, del periodo di depressione che ne è conseguito. La depressione è un incubo e credo che Dylan potesse narrarla alla perfezione.
Barbara, che cos’è che ti lascia senza Niente da Dire?
Mi lascia senza Niente da Dire l’ignoranza, che a volte abbraccia il preconcetto, il pregiudizio. Quindi, quando qualcuno giudica senza conoscere o ignorandone l’entità, ma ne vuole parlare ugualmente. Io sono della scuola di Socrate: è saggio chi sa di non sapere e penso che sia così bello poter abbracciare anche i punti di vista degli altri, ascoltare per poi elaborare una nostra opinione.
È questo che mi lascia senza parole. A volte quando capisco che c’è il pregiudizio, senza conoscere, allora non ho neanche più voglia di parlare.
Miriam Caruso