Quando gli eventi si intrecciano e diventano beffardi, li additiamo come giochi del destino. Nell’attimo esatto in cui incontriamo una persona, ci accade qualcosa di sensazionale o viviamo un lutto, ancora una volta lo etichettiamo come destino. Una parola dalla matrice profetica, ultraterrena, quasi divina. Come se il mondo funzionasse in base a un algoritmo misterioso che, scoccate le lancette, ci presenta il conto, che sia esso amaro o dolce come il miele.
Ci svegliamo nella culla, apriamo gli occhi al mondo con i primi vagiti e già dal nostro comodo giaciglio abbiamo davanti il destino apparecchiato: esso ci ha dato una casa, ha predisposto per noi delle figure guida genitoriali e un intero percorso di vita da affrontare, dalle prime cadute giocando per strada, alla corona di alloro che sembra promettere di aprirci grandi strade.
È tutta questione di predestinazione, forse un po’ scontata e socialmente accettata. Essere sospinti verso determinate azioni, traguardi, aspettative. Eppure si può sempre rompere quel sottile confine di predestinazione, muovendo passi, compiendo scelte fuori dall’ordinario e aprendo la propria vita ad altri percorsi.
E se…
Amore come destino
Quando cadiamo vittime della freccia di cupido, siamo in grado di raccontarci le favole più disparate, come sotto l’effetto della fatina verde: l’incontro come frutto di un destino fortuito o di una coincidenza voluta da forze celestiali misteriose. Rimaniamo, persino, appostati per ore nei luoghi che richiamano i nostri film romantici preferiti, in attesa che la magia si compia tra un libro di cucina e un trattato su come coltivare bonsai.
Ma non siamo in Notting Hill, grazie sempre a quelle fortuite influenze celesti. La nostra vita non è scritta da uno sceneggiatore o da uno scribacchino da strapazzo.
Siamo romantici, invochiamo il destino anche quando poi si rivela nefasto e ci ritroviamo con il cuore spezzato a contarne i pezzi tra le mani. Soffiamo via la polvere della caduta e alziamo i pugni al cielo, come se inveire verso quello strano algoritmo possa darci sollievo e conferire un significato a ogni cosa.
Lutto come destino
Ben più tragico il destino che dal sole porta al buio di una fossa. Uno scherzo del destino, anche là, quando una vita si spezza senza preavviso e il telefono smette di suonare mostrando il nome della persona cara.
È un destino crudele quando la malattia ti strappa la memoria, rendendoti succube di una stanza buia dove l’unica luce consiste in mani che ti sollevano e voci che ti accudiscono.
Il destino, una parola dalle molteplici speranze o disgrazie, si traduce in verità in: eventi che accadono. E questi accadono perché ci alziamo la mattina, perché il nostro DNA lo mantiene scritto nelle cellule, nella propensione istintuale, nell’interazione con l’altro oltre di noi.
Piangiamo con i crisantemi tra le mani, piangiamo la nostra stessa vita destinata a finire, dimenticandoci che nell’intermezzo tra il grembo e il letto di seta esistano infinite possibilità di scoperta e azione. Combinazioni che possono renderci attori primari, in questo gioco chiamato erroneamente destino.
Un passo alla volta, recidendo il filo
Vi sono altri N scenari che possono essere catalogati come predestinazione: gli stessi che accadono battendo il tempo sul nascere, nelle coincidenze del trovarsi esattamente in un determinato punto, a una certa ora alla presenza di determinate persone.
Eppure esso si compie, come detto, perché impariamo a muoverci e ad andargli incontro. Chi è vittima del destino avverso tende a chiudersi, rifiutando ogni suo tentativo intrusivo nella propria vita. Basterebbe in verità muovere un passo per volta, contandoli come nel gioco della campana e saltellando da un tassello all’altro al fine di realizzare ciò che noi intendiamo come destino.
Esso, in fondo, non esiste.
Esiste ciò che accade, dal miracolo dell’incontro alla caducità della vita, dal ragnetto che cade proprio sulla mano di Peter Parker e lo trasforma in un eroe agli arroganti fallimenti dello stesso Dottor Destino.
Miriam Caruso