5 videogiochi retro stressanti che ci hanno fatto dannare

Retrogames e difficoltà estrema sono due cose che vanno spesso a braccetto per una moltitudine di ragioni. La principale è che ai tempi gli sviluppatori di videogiochi dovevano fare i conti con limitazioni dell’hardware che tarpavano le ali delle loro possibilità creative e di design, spingendoli a puntare, più che su una storia potente e su un gameplay variegato, su una struttura di gioco più essenziale ma dall’alto livello di sfida. Questo era il mezzo principale per tenere alto l’interesse di noi videogiocatori e farci tornare a giocare: migliorare le nostre abilità e sviluppare riflessi e memoria muscolare con perseveranza e attraverso la pratica del Trial and Error.

A volte, però, questa filosofia veniva spinta decisamente oltre il punto di rottura, portando a esperienze di gioco decisamente punitive e talvolta frustranti. Questi sono cinque videogiochi che hanno fatto perdere le proverbiali staffe ai videogiocatori di tutto il mondo.

1. Il Re Leone (1994, Mega Drive, Super Nintendo e non solo)

Iniziamo questo viaggio nei traumi infantili col tie-in videoludico de Il Re Leone, che accompagnò l’uscita del classico Disney nelle sale cinematografiche. Il Re Leone, nelle sue versioni per console a 16-bit, faceva sfoggio di un comparto grafico semplicemente impressionante per i tempi. Similmente a quanto accadde con Aladdin per Sega Mega Drive (1993), il team di sviluppo si avvalse del supporto diretto da parte degli animatori della Disney, che realizzarono per questo gioco sia le animazioni dei personaggi che i fondali. Il risultato fu straordinario.

Tuttavia, l’estasi e la gioia per gli occhi nel vedere cotanto splendore rappresentato su schermo svanivano non appena ci si imbatteva nel secondo livello del gioco, basato sulla scena del film dove Simba canta “Voglio diventar presto un Re”. Quello che nel film era un allegro e spensierato momento canoro è diventato, nella sua trasposizione videoludica, un inferno dove dobbiamo aggrapparci a delle scimmie e a delle code di Rinoceronte, oltre che sfrecciare in groppa a uno struzzo evitando ostacoli ad alta velocità. Quanto è difficile questa parte? Beh, pensate che uno dei designer si è pubblicamente scusato per la difficoltà del livello.

La difficoltà di questo schema altro non era che un astuto stratagemma della Disney per tenere le persone più incollate possibile al controller, evitando in ogni modo di mostrare con facilità l’intero gioco, combattendo la pratica del noleggio dalle videoteche. “Voglio diventar presto un Re”, ma forse non lo diventerò così presto.

2. Crash Bandicoot (1996, Playstation)

Il capostipite della saga del peramele arancione era fortemente ispirato a platform classici come Sonic the Hedgehog: non è un caso che durante lo sviluppo i ragazzi della Naughty Dog avevano soprannominato il loro progetto “Sonic’s A** Game” (“Il gioco del fondoschiena di Sonic”). L’idea era quella di realizzare un gioco strutturato in maniera simile ai classici a scorrimento orizzontale ma con la telecamera puntata sulla schiena del personaggio.

Questo rifarsi ai classici platform si estendeva anche nei riguardi della difficoltà del gioco: penso che tutti quelli che hanno giocato al primo Crash sentano un brivido lungo la schiena ricordando certi livelli. Come quelli sul ponte (in particolare “The High Road”), dove al giocatore era richiesto di atterrare con precisione sulle minuscole, cedevoli e sempre più distanti assi del ponte, evitando cinghiali selvatici e usando le tartarughe come trampolini. Livelli come il labirintico “Cortex Power” hanno insegnato alle nostre allora giovani menti l’importanza del senso dell’orientamento, mentre livelli come “Slippery Climb” (che, tra le varie insidie, ha un solo checkpoint in tutto il livello), ci hanno insegnato che la vita è una continua lotta per la sopravvivenza.

A questo c’è da sommare il fatto che, nel primo Crash Bandicoot, per collezionare una gemma non è solo necessario rompere tutte le casse come da tradizione nella serie, ma bisogna anche farlo con una singola vita. Vi starete chiedendo “Caspita, potevano aggiungere altro per rendere il gioco più difficile?”. E io potrei rispondere che sì, c’è dell’altro: è possibile salvare la partita solo quando completiamo con successo un livello bonus o quando collezioniamo una gemma. Buona fortuna!

3. Battletoads (1991, Nintendo Entertainment System)

Prima di fare scuola nel genere platform con serie come Donkey Kong Country e Banjo-Kazooie, la Rare negli anni ‘90 aveva provato a fare il botto con Battletoads, un palese tentativo di replicare la formula delle Tartarughe Ninja e cercare di rivaleggiare con l’enorme successo che il franchise stava iniziando ad ottenere anche nelle sue comparsate videoludiche, dei titoli di tutto rispetto firmati dalla Konami nel suo periodo d’oro.

In Battletoads vestiamo i panni dei rospi da battaglia che danno il titolo al gioco in un Beat ‘em up che alterna scazzottate con alieni mutanti ad una varietà di altre attività. Ci sono livelli dove dobbiamo calarci in profondità appesi ad una fune, altri dove sfrecciamo a bordo di veicoli in diabolici percorsi ad ostacoli. Il gameplay e la presentazione sono senz’altro di qualità, tuttavia la difficoltà lascia sconcertati.

Sebbene sia possibile affrontare i livelli con un secondo giocatore, chiamarla modalità “cooperativa” sarebbe sbagliato, in quanto i nostri attacchi saranno perfettamente e fin troppo facilmente in grado di colpire anche il nostro compagno. Inoltre, finora non ho mai conosciuto qualcuno in grado di finire il famigerato terzo livello del gioco, il Turbo Tunnel, un percorso ad ostacoli rapidissimo ed imprevedibile, che diventa semplicemente impossibile se viene affrontato in due giocatori. Penso che questo gioco abbia messo alla prova diverse amicizie.

4. Silver Surfer (1990, Nintendo Entertainment System)

Una delle pochissime incursioni nel mondo dei videogiochi da parte del Surfista d’Argento dei fumetti Marvel è questo bizzarro Shoot ‘em Up pubblicato nel 1990 su NES. Il gioco si divide in soli sei livelli che alternano sezioni a scorrimento orizzontale con altre a scorrimento verticale, ma se riuscirete a completare anche solo uno degli stage proposti sarò disposto a consegnarvi una medaglia di persona: nonostante i poteri quasi divini che Silver Surfer mostra nei fumetti, in questo gioco qualsiasi cosa è in grado di uccidere il supereroe all’istante, comprese le pareti che delimitano i livelli.

Aggiungete a questa particolarità il fatto che ogni livello pullula di nemici e proiettili che arrivano da ogni direzione, e avete ottenuto un gioco in grado di portare alla follia chiunque sia abbastanza coraggioso o incosciente da provare a finirlo. L’unica nota di merito sono le straordinarie musiche composte da Tim Follin, che spremono fino al limite assoluto il modesto chip audio del NES.

5. Takeshi no Chōsen (“La Sfida di Takeshi”) (1986, Family Computer)

Moltissimi conoscono Beat Takeshi, al secolo Takeshi Kitano, come il Conte nel popolarissimo show Takeshi’s Castle, da noi arrivato all’ interno del format Mai Dire Banzai con il commento della Gialappa’s Band. Molti altri lo conoscono senz’altro per la sua lunga e illustre carriera da attore e regista. Sono probabilmente in pochi a conoscerlo per la sua brevissima parentesi da Game Designer: nel 1986 Kitano ideò il suo gioco, “Takeshi no Chōsenjō” (“La sfida di Takeshi”) che venne pubblicato esclusivamente in Giappone per il Family Computer (o “Famicom”, in pratica, il NES giapponese).

In questo gioco, che descriverei come un’avventura a scorrimento orizzontale, vestiamo i panni di un salaryman che abbandona la sua vita dopo aver trovato la mappa per un tesoro nascosto in un’isola del Pacifico. Una premessa apparentemente semplice, che nasconde in realtà un gioco dove a fare da padrone sono la cripticità, l’entropia e un senso dell’umorismo contorto e scorretto fino in fondo. Takeshi Kitano è un uomo che odia i videogiochi e ne ha creato uno per il solo scopo di farsi beffa dei videogiocatori. Questi vengono obbligati a svolgere mansioni e incarichi di dubbia utilità e senso: il gioco si apre col nostro salaryman che si becca una strigliata dal suo capo e poi ci lascia la completa libertà su cosa fare.

Niente nel gioco ci dice che, per proseguire, dobbiamo obbligatoriamente fare cose come andare alla banca, prelevare tutti i nostri soldi, andare in un bar e bere fino a svenire, divorziare da nostra moglie, lasciare il lavoro, perdere al Pachinko e… Andare al Karaoke per cantare esattamente tre canzoni. Canzoni che dovremo cantare sul serio, facendo uso del microfono incorporato nel secondo controller del Famicom.

Takeshi’s Challenge è un incubo che fai quando hai la febbre, ed è più perverso e sadico di qualsiasi prova vista in Mai Dire Banzai.

di Alessio “Jayped” Pedoni

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