Qualche tempo fa è capitato che la vita mi giocasse un paio di brutti tiri, facendomi diventare uno di quegli strani animali leggendari di cui si sente a volte parlare: un cantante lirico, un tenore.
Non ho mai pensato che sarebbe potuto accadere, e forse una parte di me neanche lo ha mai voluto, non vi nascondo che il mio essere pigro mi ha sempre portato ad ammirare impieghi decisamente meno creativi. Mi immaginavo quindi contento a passare articoli alla cassa, a gestire bollettini postali, a sbrigare noiose pratiche ingobbito davanti a uno schermo.
Invece è andata diversamente, mi son dato corpo e anima al sacro fuoco dell’arte. Intrattengo, suscito interesse, se va bene emoziono qualcuno, se va male lo disgusto. Posso far storcere i nasi e far alzare i mignoli con urli potentissimi così come con suoni ai limiti dell’udibile. Ho sentito qualcuno dire che potrei avere anche dei superpoteri, eppure…
Eppure in cosa consiste davvero, in fin dei conti, essere un tenore?
Il mio lavoro è mentire. Mento spudoratamente, su tutti i fronti, a tutti i livelli immaginabili. La musica che faccio? Non è la mia e spesso neanche me la scelgo. Le storie e i personaggi che interpreto? Tutto inventato, pura e semplice fantasia. Le emozioni così vere che provo e che faccio provare ai miei amati ascoltatori? Abile artigianato emotivo, tattiche e trucchetti per rendere più veritiera possibile un’arte che di vero ha ben poco: la recitazione.
La storia della mucca e del gabbiano
Partiamo dalla voce, l’ingrediente base per la ricetta del nostro cantante lirico, il mascarpone nel nostro “tenoramisù”, il guanciale nella nostra “carbaritonara”. La voce del cantante lirico la si riconosce all’istante, marchio di fabbrica della musica altolocata, potente e risonante con quel suo suono unico e buffo, quasi ridicolo, così facile da scimmiottare tra amici. Ma perché – chiederete – perché diamine i cantanti lirici cantano così?
Lo facciamo per farci sentire. È la nostra voce naturale? Grazie al cielo assolutamente no. Cantiamo così perché è bello? Vi posso garantire che stare a fianco a uno di noi nel punto clou della sua aria può essere tutt’altro che piacevole, ma de gustibus… Il fulcro del problema è che nel 1600 hanno pensato bene di inventare l’opera prima di inventare l’amplificazione acustica elettrificata, e senza microfoni noi cantanti abbiamo dovuto inventarci qualcosa perché il suono della nostra voce venisse proiettato udibile oltre un’orchestra intera. Abbiamo quindi pensato che far finta di essere un incrocio tra mucca e gabbiano fosse una buona idea, conoscete tutti il risultato.
Se dovessimo soltanto cantare, vi dirò, sarebbe quasi una pacchia, e invece no: dobbiamo essere attori. Belli, carismatici, con costumi ricercati, con interpretazioni intense, dobbiamo essere passionali ma non troppo, concettuali ma diretti, versatili e aperti a nuove frontiere di idee e di esperienze. Ve lo traduco – si arriva alle prove in teatro, tranquilli di dover fare la solita versione di una storia collaudata da secoli, e ci viene imposto tutt’altro. E noi, mentendo contenti, dobbiamo applaudire alle idee più strampalate, per poi metterle in scena con le nostre forze, consapevoli dei risultati orripilanti, in maniera addirittura credibile e sincera. La menzogna al quadrato!
La menzogna al quadrato
Troviamo quindi Rodolfo che, anziché comprare alla sua Mimì una bella cuffietta rosa per Natale, da spiantato che è le mette in mano una bottiglia da un litro di Chanel n°5. Però il regista ci teneva tanto, quindi cambiamo anche il testo nei sovratitoli, e Mimì la facciamo bionda, ci sta, cambiamo il testo pure là.
Poi arriva Alfredo, un ragazzotto ottocentesco di campagna, innamorato e spensierato, che canta di quanto è bella la vita quotidiana con la sua amata. Capita invece che Alfredo, teletrasportatosi negli anni ‘60, sia diventato un fotografo che riguarda le foto osé della sua bella, camminando su un mare di banconote. Ancora meglio: Alfredo diventa un cacciatore, che allegro e beato sventra un cervo, gli strappa il cuore a mani nude e se lo spalma sul torace cospargendo di sangue la camicia bianca. Molto bello. Molto poetico.
Oppure Riccardo, il Conte di Boston, che però questa volta lo chiamiamo Gustavo (ci piace, fa più svedese). Ecco, Gustavo lo sappiamo che è innamorato di Amelia, però questa volta è bisessuale, quindi se la spassa anche con il paggio Oscar, e lo vestiamo da disco ball anni ‘70, che così è più bellino quando balla tipo come nei musical, esatto. E facciamo anche che Renato, il marito di Amelia, è invece innamorato di Gustavo, quindi è geloso di lui, e per questo lo fa fuori. Ah, mi raccomando: quando muore, Gustavo si mette a volare tipo Gesù, e il mantello di paillettes argentate deve essere lungo almeno 5 metri!
Chi ci capisce è bravo. Eppure tutto questo l’ho dovuto portare sul palco personalmente, dentro e fuori convincente e convinto di quello che il personaggio che interpretavo – il mio personaggio – viveva e provava.
La bugia più bella di sempre
Non è facile camminare su quel filo sottile che divide la verità dalla menzogna, la fantasia dalla realtà. Ti senti solo, su quel filo, nudo e vulnerabile, in piena luce sotto i riflettori che ti soffocano e accecano, osservato da tutti. Sai di dover tenere il controllo di ogni minima azione, devi reggere ogni singola nota, mentre cerchi di far vivere ancora una volta una persona diversa da te che, in fin dei conti, non esiste.
Quando tutto finisce ti senti svuotato. Sei sempre te stesso, ma per un attimo dimentichi tutto. Nella tua testa solo lo scrosciare degli applausi o il rimbombo dei fischi, ma in fondo non ha importanza, perché sei concentrato a rimuovere l’ultima ostinata macchia di trucco dal volto, mentre pensi a cosa mangiare. Fuggi, più veloce che puoi, da quella bellissima menzogna che è il palco.
C’è un tacito accordo, a teatro. Lo spettatore sa tutto, ha pagato e si aspetta che gli si racconti la storia più bella di sempre, anche se è una storia inventata. Noi sul palco diamo ogni volta totalmente noi stessi, provando a dare vita a suoni, colori ed emozioni. Prendiamo per mano il nostro pubblico e lo portiamo con noi in quella che è forse la bugia più bella di sempre.
Ma allora che cosa è bugia? Che cosa c’è di vero nel mio mestiere?
Sinceramente non lo so, ma è molto bello. Molto poetico.
Ora penso a cosa mangiare.