Quando parliamo di paura, il più delle volte ci viene da pensare ai grandi archetipi dell’horror. Dai fantasmi ai vampiri, passando per orrori cosmici e banali psicopatici, l’horror ha dei classici intramontabili, che sono i primi ad affiorare nella nostra mente. Dato che però a me piace solleticare la mente di chi si prende la briga di leggermi e di farlo anche dove non se lo aspetta, ho pensato di punzecchiarvi su qualcosa che effettivamente è ignoto, fa paura e sta iniziando a scuotere le fondamenta della nostra società.
Sto parlando delle intelligenze artificiali e, soprattutto, delle loro capacità. Ci sostituiranno in molte cose? Fra dieci anni saremo tutti senza lavoro? Dobbiamo davvero averne paura? Io, sappiatelo, non sono qua per rispondervi, ma per far sì che abbiate uno strumento in più per cercare le vostre risposte.
Vi fornirò questo strumento facendo un gioco con voi, una roba tipo Saw: dei seguenti paragrafi che compongono questo articolo, uno è stato interamente scritto da un’IA. Sapreste dire quale?
Perché cerchiamo la paura
Il fascino della letteratura e del cinema horror ha radici profonde e complesse, strettamente legate alla psicologia umana e alla cultura. Anche se potrebbe sembrare controintuitivo che le persone siano attratte da contenuti che generano paura e disagio, questa attrazione è più articolata di quanto sembri.
Uno degli aspetti principali del fascino dell’horror è la possibilità di vivere emozioni intense in un contesto sicuro e controllato. Quando leggiamo un libro horror o guardiamo un film spaventoso, sappiamo di non essere davvero in pericolo, ma i meccanismi della suspense e della sorpresa creano un’esperienza immersiva e coinvolgente: questo ci permette di confrontarci con le nostre paure più profonde (come la morte, l’ignoto, o la perdita di controllo) senza doverle affrontare direttamente nella vita reale.
Si tratta, insomma, di un modo per sondare i confini dell’ignoto e dell’inquietante senza rischiare nulla di concreto.
L’horror, inoltre, offre una sorta di catarsi, in grado di esorcizzare le proprie paure. Si tratta di una ricerca propria del genere umano fin dai miti più antichi e l’horror contemporaneo continua questa tradizione, rappresentando paure primordiali che, sebbene declinate in forme diverse a seconda dell’epoca, rimangono universali. Creature come vampiri, fantasmi, demoni o mostri riflettono in modo simbolico il timore del sovrannaturale, della morte o di ciò che sfugge alla comprensione razionale. Questo dà al pubblico la possibilità di confrontarsi con l’inspiegabile e il terrificante, rendendo meno minacciose le paure della vita quotidiana.
Infine, non va dimenticato come l’horror esplori, a volte, il lato oscuro della natura umana, sfidando tabù e mettendo a nudo ciò che spesso preferiamo nascondere: la violenza, il male, l’immoralità. Autori come Edgar Allan Poe o H.P. Lovecraft hanno scavato nelle profondità della psiche umana, dimostrando come il male e il caos possano risiedere non solo nel mondo esterno, ma anche all’interno dell’individuo stesso. Questo spinge il pubblico a riflettere sulla propria fragilità, sui limiti della razionalità e sul potere distruttivo delle emozioni.
Esiste, poi, un aspetto sociale del consumo di horror, dovuto al fatto che, spesso, le storie di paura vengono fruite collettivamente, creando una condivisione di emozioni tra chi guarda o legge. Ridere insieme dopo un salto sulla sedia o discutere di una scena particolarmente inquietante crea un legame tra le persone, permettendo di superare la tensione attraverso la complicità.
L’horror come attesa senza fine
Quando pensiamo all’horror, che sia un film, un libro o un videogioco, siamo abituati al fatto che, a un certo punto, accada qualcosa che ci spaventi. In genere è così che l’horror viene costruito: una serie di strani eventi ci conduce al confronto finale con il mostro, l’assassino dello slasher di turno e via discorrendo.
Non per forza, però, il meccanismo della paura deve funzionare in questo modo. Esiste, nella letteratura, un esempio perfetto di quanto sto dicendo: si tratta di un racconto scritto da Henry James e pubblicato a puntate nel 1898. Si intitola The turn of the screw (Il giro di vite in italiano) e vanta una costruzione narrativa affascinante, che produce il risultato di un’eterna attesa.
La storia viene raccontata da un uomo il quale, a sua volta, mette in chiaro fin dall’inizio che gli è stata raccontata dalla protagonista della vicenda. Si tratta di una classica storia di fantasmi: una donna viene assunta come governante in una casa per prendersi cura di due bambini ma, nel tempo, inizia a sospettare che la casa sia infestata da due fantasmi di precedenti lavoratori e che i bambini siano in grado di vederli. Ciò che ha reso questo racconto un classico della letteratura, però, è che arrivati alla fine della storia non ci verrà mai rivelato se i fantasmi ci sono davvero. Tutto si basa sulle impressioni della protagonista, sulla continua crescita di tensione che lascia sempre il lettore con il fiato sospeso, nell’attesa di una scoperta che non arriverà mai. Sono più di cento anni, ormai, che la critica dibatte su questo semplice elemento: c’erano davvero i fantasmi oppure no? Inutile dire che Henry James si sia portato questo segreto nella tomba, finendo così per costruire un mito.
Un racconto di questo genere è un’esasperazione di quello che, però, è uno strumento fondamentale della paura: l’attesa costruisce man mano un timore crescente, dettato da fatti inspiegabili che iniziano ad accumularsi. Se ripensiamo a qualsiasi storia horror di cui abbiamo fruito, dovremmo riuscire, con un po’ di attenzione, a individuare i momenti in cui questa tensione viene costruita. La differenza fra il racconto di James e l’horror classico al quale siamo abituati oggi, è che non sta scritto da nessuna parte che quella tensione vada sciolta: la paura, così, può diventare attesa, rievocando uno dei timori più ancestrali dell’uomo e di cui esiste un autore in particolare che ne è, in un certo senso, diventato il simbolo.
Lovecraft e la paura dell’ignoto
“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto”.
Lo scrisse H.P. Lovecraft, un autore che, con le sue storie, mostrò al mondo come quell’attesa di cui parlavamo prima sia la nostra primaria fonte di angoscia. Le storie di Lovecraft, se prese nel loro insieme, hanno due punti comuni, che creano un chiaro obiettivo narrativo.
In primo luogo, c’è proprio l’attesa dell’inevitabile: i personaggi lovecraftiani si rendono conto, prima o poi, che esistono forze antiche, di cui l’uomo non è consapevole e contro le quali non può fare nulla. Quest’impotenza spinge alcuni di questi personaggi a suicidarsi o li conduce alla follia ma, con un paio di eccezioni trascurabili, non si concretizza mai. Non esiste un racconto lovecraftiano in cui Cthulhu risorge dalla Bay Area e inizia a divorare le anime dei mortali, ma ne esistono decine in cui viene promesso che accadrà proprio questo. Lovecraft, così come James, sapeva bene che l’attesa dell’inevitabile è il vero focolaio della paura, quello che dev’essere nutrito.
In secondo luogo, Lovecraft introduce un secondo aspetto attraverso le sue storie, che ancora oggi è, almeno in parte, una pietra miliare delle storie horror. Si tratta della mancanza di controllo. Proprio perché affrontano forze insondabili, i suoi personaggi sono impotenti e, in un certo senso, potremmo dire che ci sia, fra le righe, uno sbeffeggiamento della naturale tendenza dell’essere umano a voler controllare ogni cosa. Lovecraft ci dice che non tutto può essere controllato e che, là fuori, esiste un ignoto al quale possiamo solo sottometterci.
Saluti e in bocca al lupo
Questo paragrafo, lo garantisco, l’ho scritto io.
Ci sarebbero ancora molte cose da dire sull’horror ma volevo, in realtà, aggiungerne un’ultima. Se oggi, come dicevamo in apertura, maturiamo sempre di più timore verso le nuove tecnologie, è proprio perché ci è ignoto cosa potrebbero, un giorno, riuscire a fare. Come personaggi lovecraftiani, osserviamo un’evoluzione che, nel migliore dei casi, non capiamo e ci domandiamo quanto la sua evoluzione colpirà le nostre vite, il modo in cui siamo abituati a viverle e ciò che, fino ad oggi, abbiamo imparato.
Se però doveste riuscire, leggendo questo articolo, a individuare cosa sia stato scritto da un’IA, allora vorrà dire che forse c’è ancora un po’ di tempo. Ma il tempo, si sa, si rivela spesso il peggiore degli alleati.
di Emmanuele Ettore Vercillo