Pungente è accogliente: la dolce bugia

Stavo pensando a quella scena del film d’animazione Aladdin dove il nostro amichevole ladruncolo di quartiere canta scappando dalle guardie del sultano, saltando da un edificio all’altro in mezzo al caos delle strade di Agrabah. Sullo schermo si susseguono tanti personaggi di sfondo che vanno a affollare il mercato cittadino: popolani, fruttivendoli, venditori ambulanti che danno colore a tutta la divertente sequenza che immerge nel mood del film. Uno di questi, uno di quelli più gettonati quando si raccontava il sapore indiano, è il fachiro che viene inevitabilmente schiacciato dalla guardia di turno per far ridere lo spettatore.

Mi sono sempre chiesta come facesse quel buffo ometto a rimanere steso sul suo lettino di chiodi senza battere ciglio, su quella branda pungente che dava l’idea di essere di una scomodità incredibile.

Pungente

Pungente. Sì. È una parola che mi gira e mi rigira spesso oggi in testa, al mio secondo play party di Coven.

Pungente, come una sottile battuta detta dal moderatore del workshop di icebreaking, a inizio serata, per richiamare l’attenzione dei bisbigliatori duri di comprendonio e ripristinare l’ordine e il silenzio.

Come i ganci d’acciaio che incidono la pelle tatuata di un’incantevole dama dalle movenze sensuali; come l’ago che le sta cucendo le labbra, lasciandole la bocca socchiusa e ansante per tutta la performance.

Come la corda di canapa che stringe sulla mia pelle proprio ora, mentre vengo portata lentamente in sospensione sulla struttura dello shibari corner.

Accanto a me, che tende le corde per issarmi in aria, c’è una dolce cherubina: una ragazza dai riccioli d’oro, il viso da bambola di porcellana e una rete di maglia nera che veste come un body la metà superiore del corpo, lasciando alle più classiche autoreggenti il compito di coprire resto, con quella pieghetta sulle cosce che farebbe anche da sola tutto il capolavoro.

Ancor prima che si presentasse l’ho guardata per una quarantina di minuti giocare con un altro ragazzo, portandolo appeso a un metro da terra in una posizione che pareva tutto tranne che naturale: con la testa rivolta in basso, una gamba piegata verso il ventre e l’altra stesa dritta, attaccato a un anello di legno agganciato al lungo tubo di legno della struttura.

E tu dici: “No… Come può essere comodo?”.

Alla fine, ho preso coraggio e mi sono avvicinata. Mi ha detto il suo nome e il nome del suo stile shibari, improntato più al rilassamento profondo che al fine erotico. Sono certa di averlo ripetuto più e più volte anche a voce alta per potermelo ricordare, ma è evidente che la mia testa non era preparata a questa esperienza e ha voluto mantenere intatto il ricordo di questo mio angelo e della sua voce calma e gentile, piuttosto che delle parole che uscivano dalla sua bocca.

Il mio respiro è costretto dalle corde annodate meticolosamente dalle mani della mia accompagnatrice. La mia mente è un po’ annebbiata e i pensieri eccitati, che prima si susseguivano veloci da un film Disney a un kinbaku, rallentano fino a calmarsi. La “gabbia” mi tiene stretta, appesa, lasciandomi in un silenzioso torpore pungente.

Ora sì che mi sembra di cogliere la dolce bugia che si cela dietro questa parola, diventata ormai insignificante dopo le tante volte che l’ho sentita ripetersi nella testa: pungente è accogliente, come un abbraccio.

Pungente è accogliente

Il lettino di chiodi diventa immediatamente più comodo; quella posizione si trasforma nella più confortevole di tutte; la mia gabbia di corde diventa una crisalide dove coricarmi, riposare, ricaricarmi. E rimanere sospesa più libera di prima.

Non so quanto ci ho messo ad arrivare a questa conclusione, so solo che in un momento imprecisato mi raggiunge nuovamente la voce celestiale del mio angelo custode. “Tra poco ti faccio scendere dal tuo angolo di paradiso”.

Comincio a risentire le gambe solo perché vengono toccate dalle sue mani, torno appoggiata al suolo uscendo da un abbraccio per trovarne un altro, vedo un cortese sorriso che mi dà il bentornato sulla terra.

Vorrei quasi piangere, ma mi esce solo un timido e confuso “grazie”.

di Giulia Prada

Redazione
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