Citando testualmente un qualsiasi vocabolario italiano, il silenzio è “una condizione ambientale priva di perturbazioni sonore”. Parliamo dunque di assenza di suoni, di rumori, di voci e di parole. Non è comune però (a meno di trovarsi in apposite stanze di deprivazione sensoriale o comunque dotate di speciali insonorizzazioni) sperimentare un silenzio assoluto. Nella vita di tutti i giorni, anche creando una situazione di quiete, concentrandoci su ciò che rumoreggia in sottofondo, sentiremmo probabilmente un orologio ticchettare o i vicini chiacchierare. Qui al Double R, per esempio, ci siamo solo noi: non c’è il brusio degli altri avventori del locale. Ma se smettiamo di parlare per un attimo, percepiamo il traffico scorrere fuori dai finestroni, il ronzio delle luci al neon e Norma che armeggia con i bicchieri delle nostre bevande. Se chiudiamo gli occhi possiamo ascoltare il nostro respiro o addirittura il nostro cuore battere.
Considerato che, stando alla sua definizione enciclopedica, nemmeno il silenzio di cui riusciamo ad avere esperienza quotidianamente è un totale silenzio, verrebbe naturale pensare che un fenomeno come la musica stia proprio all’opposto. Con la sua varietà di strumenti dai timbri diversi, percussioni, voci, suoni e ritmi, la musica è sicuramente definibile come un’avvolgente e coinvolgente “perturbazione sonora”. Eppure, essendo fatta anche di pause che si alternano alle note, in qualche modo la musica ingloba in sé stessa persino il silenzio, e lo trasforma in un elemento espressivo potente, che rende più significativi i suoni stessi. Spesso le pause musicali precedono momenti in cui, al contrario, la dinamica del brano poi si sviluppa e cresce, aiutando per contrasto anche a dare risalto a quelle parti del testo che necessitano una maggiore spinta emotiva. Questa incredibile ma solo apparente natura paradossale della musica che comprende anche il silenzio ha probabilmente ispirato alcune canzoni che raccontano proprio di esso.
Mentre Norma gentilmente adagia sul nostro tavolo preferito i drink che abbiamo scelto, lascio per un attimo il comodo divanetto rosso per selezionare dal Jukebox il primo brano che vorrei ascoltare con voi oggi:
“All I ever wanted
All I ever needed
Is here in my arms
Words are very unnecessary
They can only do harm”“Tutto ciò che ho sempre voluto
Tutto ciò di cui ho sempre avuto bisogno
È qui tra le mie braccia
Le parole sono davvero non necessarie
Possono solo fare del male”
Pubblicata nel 1990, Enjoy The Silence è un perfetto esempio di musica che parla di silenzio. Nei piani dei Depeche Mode c’era quello di farne inizialmente una ballad, prima di renderla il brano synth-pop che oggi conosciamo. La scelta di un tempo più veloce si rivelò essere meno scontata rispetto all’idea iniziale e contribuisce a dare alla canzone un’aura suggestiva. L’arrangiamento elettronico up-tempo infatti, unito alla vocalità sinuosa di Dave Gahan, crea un’atmosfera evocativa e al contempo un interessante contrasto con il testo. La parte letteraria, coerentemente minimalista e con un ritornello ripetuto in maniera quasi ossessiva, pone l’accento sull’inutilità e sulla vuotezza delle parole rispetto alle sensazioni. Godersi il silenzio per i Depeche Mode non è dunque una privazione, ma al contrario è un valore: permette di lasciar parlare le emozioni, che dal loro punto di vista sono l’unica cosa veramente destinata a non essere tradita o dimenticata.
La traccia termina in un fade-out che disperde nell’aria gli ultimi echi dei sintetizzatori. Mentre Norma sparecchia il nostro tavolo, lasciamo le sonorità elettroniche per passare alla dimensione più intimista di un arrangiamento acustico:
“And in the naked light, I saw
Ten thousand people, maybe more
People talking without speaking
People hearing without listening
People writing songs that voices never shared
No one dared
Disturb the sound of silence”“E nella luce nuda ho visto
Diecimila persone, forse di più
Persone che parlavano senza dire
Persone che sentivano senza ascoltare
Persone che scrivevano canzoni che nessuna voce condivideva
Nessuno osava
Interferire col suono del silenzio”
Se per Gahan e compagni le parole possono essere superflue fino ad arrivare a ferire e rovinare i rapporti tra le persone, Paul Simon e Art Garfunkel riflettono al contrario su come i silenzi e l’incomunicabilità possano innalzare dei muri e dividere ancora di più: questo è infatti il tema attorno al quale ruota The Sound Of Silence, celebre brano del duo statunitense pubblicato nel 1964. La canzone, inclusa anche nelle colonne sonore di alcuni famosi film come Il laureato e Watchmen, è stata scritta da Simon al buio, nel silenzio del bagno di casa sua, come era solito fare in fase di composizione: a questa sua abitudine fa infatti riferimento il verso iniziale della traccia, che recita appunto “Hello darkness, my old friend”. Nel testo, il silenzio è visto principalmente come una mancanza di dialogo. Questa privazione, come viene ben espresso fin dall’ossimoro che caratterizza il titolo, fa tanto rumore da diventare persino assordante, mettendo in evidenza tutti i limiti della comunicazione umana. Simon e Garfunkel ci raccontano di persone che parlano senza effettivamente comunicare niente, e di altre persone che di conseguenza sentono frasi vuote, discorsi che anche se avessero un reale significato non sarebbero comunque veramente ascoltati da nessuno.
Questa critica all’apatia dell’essere umano contemporaneo, egocentrico e pieno di sé, e alla sua incapacità di stringere dei rapporti col prossimo basati sull’ascolto, non si discosta poi troppo dalle tematiche contenute nella traccia dei Depeche Mode. Il messaggio dei due brani, pur ribaltato e osservato da due punti di vista diametralmente opposti, riflette in ultima analisi sugli stessi aspetti: le parole non sono nulla se non sono dense di sentimenti, di umanità, di verità. E il silenzio che fa più paura non è quello in cui sono assenti le parole o le “perturbazioni sonore”, ma quello in cui mancano le emozioni, la condivisione e il calore umano.
Le ultime note di una chitarra sfumano mentre Norma spegne le luci. Il Double R chiude, è ora di andare.
di Marta “Minako” Pedoni