Parliamoci chiaro, Rob: io lo sapevo che ti saresti messo a scrivere queste righe.
Ti vedevo mentre scorrevi la chat della redazione di Niente da Dire mentre i tuoi colleghi si rimpallavano spunti per articoli legati al tema di questo mese, la privazione. Ti vedevo mentre facevi finta di niente e ignoravi quanto, per una volta, questo tema bussasse nella tua testa con frasi del tipo: “Ehi, ma tu qui sapresti di cosa parlare. Per quale motivo non ti metti al computer e non inizi a scrivere?” Già, eri talmente sovrappensiero da non accorgerti che, questa volta, avresti avuto davvero qualcosa di personale da raccontare. Ti sei sentito come se ti avessero concesso l’opportunità di intervistare Paul McCartney e ti fossi reso conto solo all’ultimo secondo prima del termine della conversazione di non avergli posto nemmeno una domanda sui Beatles – quando mai ti potrebbe ricapitare una simile occasione?
Per fortuna ora stai scrivendo. Ti vedo mentre cerchi di battere sui tasti senza nemmeno guardare il monitor, consapevole del fatto che basterebbe una singola esitazione per spingerti a cancellare tutto. Tanto avrai tempo per correggere i refusi (anzi, probabilmente alcuni resteranno, come capita sempre più di frequente nei tuoi pezzi). Ti vedo mentre ti interroghi su quella parola, privazione, e su tutto quello che ha finito per rappresentare negli ultimi sei mesi.
Privazione fisica, prima di tutto. Privazione di un rene, rimosso dal tuo corpo perché ospitava un tumore che superava il chilogrammo. Privazione arrivata all’improvviso con una visita di routine che ha innescato tutte quelle situazioni che pensi sempre di assistere per sentito dire e mai di persona.
Mi sono convinto che il modo in cui hai reagito quando hai varcato la soglia dell’ufficio del medico notando che tutti i presenti, compresi i tuoi famigliari, avevano la stessa espressione raggelata sia stato indicativo di come avresti affrontato l’intero percorso legato a questo inconveniente fisico. Va detto che tu sei un professionista nella nobile arte del tenerti tutto dentro quindi, da questo punto di vista, avevi parecchia esperienza pregressa.
Pragmatismo, fiducia nelle cure e nell’intervento d’urgenza, volontà ferrea nel rassicurare le persone che conosci. Le persone che, ripensandoci, hanno sicuramente sentito lo spettro di una privazione che si stava palesando anche in loro perché persino le più ottimiste avranno di certo avvertito talvolta una vocina che diceva loro di prepararsi mentalmente a salutare un conoscente.
Privazione della serenità, questa è la cosa che è balzata subito ai tuoi occhi. Perché se di giorno facevi lo spavaldo ecco che di notte ti svegliavi al rintocco di ogni ora, la mente talmente satura di nubi nere da impedirti persino di trovare quell’oncia di quiete capace di superare lo stress e concederti di chiudere gli occhi. Quanti libri hai letto in quelle nottate? A occhio e croce una decina. Li trattavi alla stregua di contenitori zeppi che riversavi nel tuo cervello, convinto che facendo lavorare la tua fantasia nell’immaginare tutte quelle storie l’avresti tenuta occupata. E, talvolta, ci sei persino riuscito.
La privazione del sonno è rimasta e ti ha accompagnato durante il tuo ricovero del quale conservi sprazzi di ricordi che sembrano essersi aggrappati ad alcuni gangli nervosi per riproporsi solo in specifiche circostanze: l’atmosfera asettica dell’ospedale, lo spiraglio di luce che entrava dalla porta della tua stanza e che prometteva fantastiche opportunità se solo avessi avuto la forza di alzarti da quel letto, la sensazione di avere un intero corpo che va riavviato come una macchina ricostruita da zero e che tu riconosci essere il tuo anche se ti risponde fino a un certo punto.
La suddetta privazione ti ha accompagnato anche nelle settimane successive, quelle della convalescenza. Le hai trascorse dormendo seduto perché se ti fossi sdraiato avresti avuto serissime difficoltà a rialzarti il mattino dopo. Non ti addormentavi, ti limitavi a svenire per la stanchezza e non sono certo che quella routine fosse ascrivibile al concetto di “riposo”.
Ma questa privazione di serenità è ancora qui, anche se fai finta di nulla perché ora riesci ad alzarti dal letto da solo e persino a guidare.
Probabilmente capita a tutti coloro che affrontano un simile percorso; diventa una cicatrice meno visibile di quella che adesso marchia il tuo corpo ma non per questo meno invasiva. Si fa forza delle energie fisiche e mentali che ti ha tolto nei lunghi mesi che ti hanno visto affrontare questa cosa e gonfia il petto per ribadire di non volersene andare.
La avverti ogni singola volta che vai in bagno perché hai sempre il timore di guardare nella tazza e trovarvi del sangue. La avverti ogni volta che si avvicina una visita di controllo perché hai paura di dover affrontare ancora quegli sguardi che hanno accompagnato la prima diagnosi. Non ne esci da questa privazione, poco ma sicuro. Hai persino provato a registrare un episodio di Punto Critico su questo tema, te lo ricordi? Solo che parlarne davanti a una telecamera ti aveva dato una sgradevole sensazione e aveva riaffacciato troppi stati d’animo quindi hai rimandato questo genere di condivisione fino a oggi.
E allora che cosa puoi fare, Rob? Come la scacci la sensazione che questa parola suscita in te? Semplice: non lo fai.
Io ti osservo, ti conosco bene. Adesso vivi sempre con la sensazione di sentirti difettoso e fallato rispetto alle altre persone ma, perlomeno, cerchi di non assecondarla troppo.
Lavori ai tuoi progetti, guardi e leggi cose che ami, sorridi quando qualcuno ti scrive in privato per dirti che apprezza ciò che fai.
Ridi e scherzi, lo fai spesso. Sei bravo con l’autoironia, quasi quanto lo sei nel tenerti tutto dentro. Cerchi di cogliere ogni opportunità per lasciarti sorprendere e cerchi di schivare tutte quelle che rischierebbero di avvelenarti. E provi a raccontarti, come hai fatto in queste righe. Anche se la cosa ti suscita emozioni contrastanti sai che potresti aiutare a non sentirsi solo qualcuno che, in questo istante, sta affrontando la medesima situazione.
Perché hai la sensazione che il concetto di privazione ti accompagnerà per il resto della tua vita ma ora che lo vedi bussare quotidianamente alla tua porta ti sei reso conto di una cosa: che dovrai conviverci ma, se non altro, sei sempre tu quello che può accompagnarla all’uscita quando inizia a prendersi troppe libertà.
di Roberto “Mr. Rob” Gallaurese