-It’s not possible.
-Not probable!
Giusto vent’anni fa, in estate, usciva La Maledizione della Prima Luna, ovvero Pirates of the Caribbean – The Curse of the Black Pearl, e una delle più grandi icone della cultura popolare faceva il suo ingresso barcollante nei cinema di tutto il mondo. Capitan (non sia mai che lo omettiamo) Jack Sparrow.
Il successo è istantaneo, dirompente, e per questo ci sono una serie di motivi immediati e ben visibili. Primo tra tutti, un Johnny Depp mai così ispirato, così divertente e divertito, che si muove sulle battute fulminanti di Elliott, Rossio e molti altri, inciampando e saltellando attraverso la regia impeccabile e giocosa di Verbinski. E poi i pirati! Chi, sotto sotto, non vuole essere un pirata?
Ed è proprio quel sotto sotto che dona al film la sua vera, inaspettata scintilla di vita, nella figura di Capitan Jack. Sì, perché, prima del suo avvento, il progetto nasceva col semplice intento di intrattenere le masse, di costruire un franchise sull’omonima attrazione di Disneyland e raccontare divertenti avventure piratesche.
Jack Sparrow, gli albori di un personaggio iconico
È facile immaginare come le prime stesure della storia ruotassero attorno ai due giovani protagonisti innamorati, Will ed Elizabeth. Il povero fabbro innamorato della figlia del governatore che poi viene rapita dai pirati, dando a lui un occasione di mostrare il suo valore. Avvincente quanto il matrimonio di quella coppia di amici che sta insieme dal liceo.
Ma ecco che arriva Jack! Col suo personaggio, Depp dirotta la sceneggiatura come Jack dirotta e requisisce le navi della Marina Britannica, si impone nella storia trasformando uno sbiadito personaggio di sfondo in un protagonista iconoclasta, un nobile Matto dei Tarocchi, che irrompe sul palco mezzo ubriaco e rimescola le noiose carte della trama romantica come il Puck di Shakespeare.
Questo lo si deve al genio di Depp, certo, ma la trovata altrettanto geniale è che la sceneggiatura non rinnega le sue origini banali, anzi le sbatte in faccia allo spettatore nel primo atto del film. La formalità britannica che attanaglia Will ed Elizabeth da ogni lato, che li separa, che soffoca Elizabeth col corsetto e Will col pregiudizio di classe diventa quasi una parodia di sé stessa, esagera le sue battute e i suoi conflitti, i suoi triangoli amorosi forzati, per esplicitare quanto le norme sociali siano ridicole, così allora come oggi.
Will ed Elizabeth sono due marionette solo in parte consapevoli dei fili della trama (sociale e narrativa) che li muovono. Almeno fino all’arrivo del caro Jack. È lui a strappare via il corsetto di Elizabeth, che le toglie letteralmente il respiro difronte alla proposta di matrimonio del Commodoro, e che la trascina letteralmente a fondo.
Ed è sempre Jack a spingere il perfettino “legale buono” Will Turner verso la pirateria, facendo leva sul suo amore represso per Elizabeth. Sotto la guida di Jack, Will requisisce una nave, salpa verso l’avventura e scopre persino di avere sangue pirata nelle vene da parte di padre.
La scoperta devasta Will come Luke davanti alla rivelazione di Darth Vader, ma questa non è la maledizione ereditaria che Will crede. Al contrario, è un occasione. Jack rivela a Will la sua infanzia repressa, e gli mostra una rotta per rivendicare quella natura e la sua libertà.
Ci vorrà quasi tutto il film, ma alla fine Will ed Elizabeth combatteranno fianco a fianco come veri pirati, come gli avventurieri innamorati che sognavano di essere da quando si sono incontrati da piccoli, dal tempo in cui era ancora legittimo per loro sognare.
Jack come metafora della ricerca di libertà
Ed è qui che Jack Sparrow rivela la sua segreta natura. Come Fonzie non è il protagonista di Happy Days e Ferris Bueller non è il vero protagonista di Una Pazza Giornata di Vacanza, così Jack non è il centro del film, non è un personaggio ma una forza interiore, è la versione piratesca del Dr. Frank-N-Further di Rocky Horror Picture Show, il riflesso androgino di quello che Will ed Elizabeth potrebbero essere, di quello che tutti noi potremmo essere se seguissimo la nostra rotta anziché recitare un ruolo in una storia scritta da altri.
Proprio come Jack, che segue la sua bussola che non punta mai al nord, ma solo verso dove il suo cuore vuole davvero andare.
Questa natura interiore di Jack si esplicita nel finale. Per salvare Jack dal patibolo, Will ed Elizabeth rinunciano ai loro ruoli sociali e rischiano esilio e morte, e tutta la scena è dominata da una corda tesa, non quella del cappio, ma quella tesa tra Jack e Will, un cordone ombelicale metaforico che funge da arma impropria, e che i due impugnano all’unisono.
È lo stesso cordone, lo stesso legame segreto che lega Elliott a E.T., che lega Peter Pan a Trilli, i due più grandi simboli della magia e del potere dell’infanzia del secolo scorso. È con quella corda ben tesa tra di loro che Will, Jack ed Elizabeth corrono verso la libertà a rischio di tutto e contro tutti.
Perché così come la sua amata Perla Nera, quello che Jack Sparrow è in realtà, “è libertà”. La sua natura vive a cavallo tra l’infallibile spocchia di Peter Pan che è già sfuggito alle norme e alla mortalità, e la goffaggine di un Capitan Uncino che ancora si divincola tra di esse: un passero, come dice Davy Jones nei sequel, “che non ha ancora imparato a volare”.
Sfida le leggi della logica, della gravità e perfino della trama per portare più persone possibili verso infanzia, avventura e libertà, per poi scappare dal suo personale coccodrillo ticchettante nella forma di un Kraken determinato a mangiarselo. La chiave dell’immortalità e assoluta libertà gli sfuggono più volte tra le dita eppure lui continua a cercarle, e così vive in eterno, veleggiando verso la sua Isola Che Non C’è sempre oltre l’orizzonte.
Il desiderio di diventare pirati
In questo senso, il cuore dei Pirati dei Caraibi non sono i pirati ma il sogno segreto e represso di diventarlo. Il film legittima quella volontà, ne spiega il motivo e offre una via per seguire la propria rotta attraverso tutti quegli atti che ci sembrano ridicoli, indecenti e perfino impossibili, attraverso quell’avventura e quella natura che tanto spesso non abbiamo il coraggio di seguire.
E così come i film che ha plasmato e dirottato, anche Capitan Jack non ci offre una soluzione semplice, non ci offre un posto nella sua isola immortale o una parte del tesoro, perché non ha ancora trovato né l’una né l’altro, ci offre solo la libertà di cercarli.
Con ogni suo gesto, ogni sua scelta, ogni sua improbabile fuga, Jack ci insegna la vera via della pirateria, la via della più sana follia, ci insegna a dirottare dal conforme, dirottare dalla trama, leggere la nostra bussola e, infine, ci offre una nave per solcare i mari del possibile, diventare improbabili, fino a tramutarci in tutto quello che gli altri ritengono impossibile, a diventare leggenda, diventare vivi, diventare eterni.
di Lorenzo “Star-Lore” Pelosini