Il concetto di peccato è qualcosa che scopriamo fin dalle prime volte in cui ci affacciamo alla società e, neanche a dirlo, finisce per accompagnarci per tutta la vita.
Tutti quanti abbiamo un’idea di cosa sia il peccato, idea che possiamo generalmente associare a un tabù, qualcosa che non andrebbe fatto e, sebbene la costanza con cui quest’idea ci accompagna la faccia sembrare quasi qualcosa di naturale, il peccato è un’invenzione. Un’invenzione che l’essere umano ha portato avanti per ottenere un risultato e, in questo senso, non sorprende che il dizionario Treccani gli attribuisca uno stretto legame con la norma divina, per via dell’etimologia che riconduce il termine al latino peccatum, che identificava un’offesa al divino.
Si capisce, allora, che il peccato è sempre stato uno strumento nelle mani dell’uomo per stabilire cosa si può e cosa non si può fare: non uccidere, non desiderare la donna d’altri, non rubare e via discorrendo.
Verrebbe allora da chiedersi per quale ragione l’uomo è l’unico animale che costruisce sistemi di credenze tali da impedirgli di assumere determinati comportamenti che, in molti casi, sarebbero per lui istintivi. In altre parole: perché abbiamo inventato il concetto di peccato?
La funzione del peccato
Diverse generazioni sono cresciute conoscendo una famosa trilogia cinematografica: quella di Star Wars. E, per questa ragione, tutti quanti sappiamo che Anakin Skywalker, a un certo punto, viola le regole dell’ordine Jedi cedendo alle sue emozioni, nello specifico assecondando quelle più viscerali e che quasi tutti sperimentiamo, prima o poi, nella vita: l’amore e la paura di morire o veder morire i propri cari.
Detto in altri termini, Anakin non fa altro che violare un precetto religioso: un Jedi deve tenere a bada le sue emozioni. E, dopo averlo violato, viene punito per questo. C’è un messaggio sottinteso che è comune a qualsiasi religione e che collega il peccato con la punizione, una punizione ultraterrena dalla quale non si può fuggire e che, dunque, ci invita a comportarci in un determinato modo.
La funzione del peccato è tutta racchiusa in quest’idea ed è anche il motivo per cui qualsiasi religione esprime, a suo modo, l’idea del peccato: il suo scopo è quello di dare regole a una società complessa come quelle umane, in modo da facilitare la coesistenza degli individui.
Per estensione, potremmo dire che questo è il compito che è stato da sempre assunto dalle religioni e non è un caso, in effetti, che in quei paesi che nella storia hanno eliminato la religione, come ad esempio la Russia sovietica, si sia sprofondati in un culto della persona che poche differenze ha con il culto del divino.
In questo senso, il peccato non si differenzia dalla legge dello stato se non per un importantissimo particolare: l’idea di peccato ci influenza su un piano morale; non tanto sul nostro essere bravi cittadini ma su quanto siamo bravi esseri umani. Allo stesso modo, promette di punire i trasgressori non con pene pecuniarie o detentive ma con l’eterna vendetta del dio che ci ha creato.
Sedimentando quest’idea nel corso di secoli, culture e tradizioni, si ottiene un allineamento ai propri desideri che gode di tutt’altra potenza. In altre parole, se l’undicesimo comandamento fosse stato “paga le tasse”, l’Italia godrebbe di una situazione migliore in termini di evasione fiscale perché magari qualcuno potrà pensare di far fesso lo stato e riuscirci, ma a nessuno passerebbe per la testa di sfidare Dio.
Dopotutto, la fede si è ben assicurata di chiarire, con la figura di Lucifero, cosa succede a chi ci prova.
Il potere del peccato
Il 18 novembre del 1978, il predicatore Jim Jones invitò (in un’assemblea di cui esiste una registrazione audio) i membri della sua comunità a togliersi la vita avvelenandosi col cianuro prima che il governo americano potesse distruggerla. Nel suicidio di massa di Jonestown morirono più di novecento persone ed è forse l’esempio più lampante di come la dottrina religiosa possa condurre i suoi seguaci verso qualsiasi strada.
Non è difficile capire, a questo punto, come il peccato si trasformi in un mezzo per esercitare un potere significativo sugli individui. Quello di Jonestown è senza dubbio un esempio estremo di quest’idea, ma ne esistono anche di più subdoli, che fanno ormai parte della nostra quotidianità. Se l’omosessualità è peccato per una religione, allora molti fedeli di quella religione saranno portati a condannarla, persino in sé stessi.
Come tutti i poteri, anche il peccato può diventare un problema quando prende determinate direzioni. La società in cui viviamo oggi si è organizzata e strutturata cercando di separare il divino dallo stato, in un processo che ha richiesto secoli di storia ma che non è ancora completo e che, plausibilmente, non lo sarà mai.
Per quanto possiamo esercitarci a tenere le sovrastrutture religiose lontane dalla politica, infatti, l’educazione religiosa farà comunque parte dell’esperienza culturale di chi è chiamato a fare scelte politiche. In molti casi, è proprio dall’educazione religiosa che deriviamo i concetti di moralità che ci rendono umani e guidano le nostre scelte.
L’idea di peccato è qualcosa che siamo tenuti a portare con noi, perché costruisce le fondamenta su cui si basa la nostra morale. Al tempo stesso, però, quella stessa idea può essere usata contro di noi, per farci apparire come mostri o demonizzare persino le nostre libertà civili.
È facile pensare, come Karl Marx fece a suo tempo, che il problema sia la religione in sé e raccontarla come oppio dei popoli, ma sarebbe un pensiero sciocco. In fondo, i famosi aborti illegali effettuati da Emma Bonino portarono alla legalizzazione di un importante diritto che era, all’epoca, criminalizzato.
In generale, qualsiasi forza cerchi di normare la società, che sia per via religiosa o laica, incorre inevitabilmente in grossi incidenti di percorso dovuti alla naturale evoluzione delle società stesse, che cercano diritti e libertà differenti. Oppure, possiamo provare a comprare una baita fra i boschi, rimuovere il peccato e la società dalla nostra esistenza e vedere se funziona. Resterebbe solo da chiedersi quanto ne valga la pena.
di Emmanuele Ettore Vercillo