Vi è chi, dell’informazione, ne fa un mero lavoro, redigendo articoli che possano essere utili nel breve termine agli utenti che leggono distrattamente sulla metro il quotidiano locale.
C’è chi, invece, ha deciso lucidamente che la propria missione nella vita corrispondesse al voler raccontare le storie di chi urla e nessuno può ascoltarlo. Sotto le bombe, nella disperazione, tra sangue e fame, nel fango e nella polvere. Tantissimi essere umani, ad oggi, convivono col fardello di svegliarsi nel terrore di una vita che può scadere da un momento all’altro, dimenticati in luoghi del mondo sotto assedio. Qui, le lacrime delle madri sono strazianti, i bimbi riposano sotto terra e i padri immergono le mani nel sangue per trovare del cibo per la propria famiglia.
Ho osservato un riflesso di un mondo che per me, come per molti, esiste in formato edulcorato tramite le notizie filtrate da luoghi di guerra o dalle voci chiare e limpide di giornalisti come Pablo Trincia.
Seduti su di un divanetto, mentre Pablo pazientemente rispondeva alle mie domande avvicinando le parole al registratore del mio telefono, mi sono emozionata nell’ascoltare la storia di un umano troppo umano, una voce oltre il volto che avevo imparato a conoscere in Tv. Di seguito, la mia intervista esclusiva a Pablo Trincia.
Chi è Pablo Trincia?
Un ragazzo innamorato del mondo, che da piccolo aveva un sogno: viaggiare, senza sapere esattamente cosa fare di questi viaggi. Però sognava anche di trasformare il viaggio in un lavoro. Era un bambino che aveva questo grande sogno, che col tempo è diventato un ragazzo che lo ha realizzato.
Quando ha avuto inizio la tua carriera da giornalista?
È iniziata per caso. Dopo l’università volevo lavorare nella Cooperazione Internazionale, ma poi ho trovato posto in una piccola redazione online vent’anni fa e ho iniziato a scrivere di Africa. In seguito, ho esplorato tutti i diversi strumenti di narrazione: la parola scritta, il video e adesso l’audio.
Com’è cambiato il tuo approccio alla cronaca, utilizzando media così diversi?
È cambiato tutto nel momento in cui sono passato ai podcast, perché ho scoperto uno strumento che non ha limiti: nessuno ti può dire quanto devi scrivere, quanto puoi raccontare, ma lo decidi tu e ti puoi prendere tutto il tempo che vuoi.
Questo per un autore è oro. Per me il punto di svolta, quindi, è stato proprio la scoperta del mondo dei podcast.
Sul piano emotivo, quando devi narrare fatti di cronaca nera anche abbastanza gravi, come li affronti?
Sono vent’anni che mi occupo di ingiustizie, storie forti e drammi.
Mi ci sono sempre avvicinato molto, troppo, ricercando l’empatia nel racconto, la vicinanza umana. Mi sono un po’ anche ustionato, perché ovviamente, dopo un po’ che hai a che fare con queste esperienze, psicologicamente hanno effetti abbastanza pesanti.
E quindi, oggi, sono qua a cercare di aggiustare un po’ dei danni, andando anche in terapia, ma non fermandomi nel raccontare storie.
Parliamo del tuo podcast “Sangue Loro”. Hai intervistato persone con storie forti e demoni alle spalle. Come sei riuscito a costruire un ponte comunicativo tra te e i protagonisti delle tue interviste?
La cosa più importante che devi fare quando svolgi questo mestiere è interrompere il giudizio, cercando di metterti nei panni di chi ha vissuto un’altra vita, magari sbagliando, commettendo errori o macchiandosi di crimini e reati. Devi cercare di metterti nei loro panni, capire perché siano arrivati a fare certe cose. In tutto ciò, non devi mai perdere di vista l’aspetto umano.
Siamo tutti esseri umani.
Io ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che mi ha stimolato, in un mondo dove non piovono bombe in un periodo storico sfavorevole e ovviamente non posso giudicare chi invece proviene da altre realtà o vive altre situazioni. Posso cercare di capirlo, ma non lo posso giudicare.
Cerco sempre di sospendere il giudizio: questo secondo me è l’approccio migliore.
Quanto è importante comunicare determinati fatti di cronaca, divulgando il più possibile anche un lato oscuro di ciò che si cela nella società?
È importante nel momento in cui veicoli un significato. Quando hai un’intenzione che non è solo quella di intrattenere il pubblico, ma stimolare a un ragionamento. Stimolare a una riflessione. Allora sì.
Altrimenti è una roba un po’ fine a sé stessa.
Ultima domanda, Pablo cosa ti lascia senza Niente da Dire?
Il genocidio dei palestinesi.
Miriam My Caruso