Il narcisismo letterario e le sue conseguenze

Abbiamo tutti un’idea, più o meno approssimativa, di che cosa sia il narcisismo. Volendo riassumere in modo spicciolo, come diceva il Marchese del Grillo, il narcisista tende a essere dell’idea che “io so’ io e voi non siete un cazzo” o, in altre parole, tende a vedersi come migliore degli altri a causa di una smisurata autostima, vive un forte bisogno di ammirazione e vede gli altri come inferiori mancando, per questa ragione, di empatia nei loro confronti.

Va da sé, dunque, che sia bene guardarsi dai narcisisti, in quanto le loro personalità possono rivelarsi distruttive per le persone che hanno intorno.

C’è però un’altra sfaccettatura della personalità narcisista di cui non sia parla spesso, una sorta di specializzazione del narcisista che si applica all’ambito letterario e influisce sui gusti di lettura di una società che ha già tanti problemi a leggere.

Proviamo a parlarne e, soprattutto, a discutere di cosa la sua esistenza comporti per la dieta culturale del mondo in cui viviamo.

Chi è il narcisista letterario

narcisismo letterario

Spende ore a leggere, ma soltanto libri accuratamente selezionati, che fanno parte di un ristretto vulnus autoriale universalmente riconosciuto come meritevole.

Se lo invitate a casa, la prima cosa che fa è scrutare con attenzione la vostra libreria, giudicando con le sue espressioni ogni titolo in cui s’imbatte ma senza dire nulla.

È un vorace follower del Premio Strega (probabilmente l’ultimo rimasto) e più che esplorare nuove letterature si documenta sulla critica, aspetto che lo rende armato fino ai denti in un dibattito letterario, perlopiù con armi non sue.

Ma soprattutto, e questo è l’aspetto più pericoloso, il narcisista letterario è colui che si fregia della presuntuosa pretesa di stabilire cosa è letterario e cosa no.

Il narcisismo letterario in Italia ieri

L’Italia, ahimè, ha una lunga tradizione di narcisismo letterario. Se ricordate qualcosa della letteratura liceale, potrebbero suonarvi nomi come Benedetto Croce, il quale sosteneva che quella di Pascoli non fosse vera poesia (con intento dispregiativo lo chiamò poeta delle piccole cose, appellativo che ironicamente gli diede la fama dei posteri) e potreste anche ricordare come Italo Svevo, a un certo punto, rinunciò alle sue velleità di scrittore a causa della feroce risposta della critica ai suoi romanzi (fu solo grazie alle insistenze del suo amico James Joyce che ultimò il capolavoro La coscienza di Zeno, che noi tutti conosciamo almeno per il titolo).

Ma ci sono decine di altri esempi illustri: il critico Pietro Bembo, autore delle Prose della volgar lingua e considerato uno dei padri dell’italiano, definì la poesia di Dante un campo di grano costellato d’erbacce, ritenendola sporca a livello stilistico.

Il narcisismo letterario in Italia oggi

Ancora oggi, nel panorama letterario, figure autorevoli si prendono la briga di dirci cosa va bene in letteratura e cosa no. È per questo che l’editoria italiana, in un unicum internazionale, pratica una netta separazione fra romanzo di genere e romanzo letterario, separazione che non ha conosciuto crisi nemmeno con una maggior vicinanza al mondo anglosassone e la sua tendenza a evitare distinzioni nette.

Se però, come me, siete cresciuti con scritti come quelli di Stephen King o H. P. Lovecraft, lasciando che i classici arrivassero quando era tempo per i classici o facendone volentieri a meno, vi sarà probabilmente capitato di sentire giudicati i vostri gusti letterari in modo aspro, come meno meritevoli d’attenzione, a volte anche con l’epiteto bizzarramente negativo di giovanili.

Se, col tempo, avete imparato a liquidare questi sciocchi giudizi e limitarvi a godere di un buon libro quando avete la fortuna di trovarlo, però, sappiate che questa non è cosa da tutti: il narcisismo letterario produce dei danni, le cui conseguenze oggi stanno maturando senza che ci sia una sufficiente consapevolezza per realizzarlo.

Gli effetti del narcisismo letterario

Torniamo per un attimo a Italo Svevo. Oggi, nessuno esiterebbe a ricordarlo come uno dei più importanti autori della storia italiana ma, come detto, non è sempre stato così. Il suo primo romanzo, Una vita, fu evitato dall’editoria, raggiungendo a stento una pubblicazione che venne stroncata dalla critica letteraria. Destino anche peggiore toccò al secondo, Senilità, che la critica ignorò del tutto, al punto che Svevo decise di lasciar perdere e dedicarsi al suo lavoro, abbandonando l’idea di un terzo romanzo.

Fu il suo amico e insegnante d’inglese James Joyce a insistere per leggere le bozze del suo scritto successivo e spronarlo a ultimare il lavoro, promettendogli di farlo leggere a editori di sua conoscenza. Svevo si lasciò, fortunatamente, convincere, dando così vita a La coscienza di Zeno, romanzo che venne acclamato in Francia, mentre in Italia Eugenio Montale ancora cercava di convincere gli ambienti letterari della validità di questo autore.

Questa bizzarra storia c’insegna qualcosa di prezioso, su cui forse bisognerebbe spendere una riflessione. La letteratura, come tutte le forme d’arte, vive su due dimensioni parallele: una prima è la tecnica, che ci spiega quali sono i modi migliori d’ottenere un risultato, che strumenti abbiamo a nostra disposizione e come utilizzarli.

Poi, però, c’è una seconda dimensione che è tenuta, per forza di cose, ad allontanarsi dal passato per riuscire a raccontare il presente. È grazie a questa seconda dimensione che Dante anticipò di un secolo la questione della lingua, includendo il parlato popolare nei suoi versi, e che autori contemporanei hanno raccontato il disagio di generazioni cresciute senza grandi sfide sociali. Bisogna riconoscere i meriti del passato ma allontanarsene per raccontare il presente o, ancora meglio, ipotizzare il futuro.

Questo è ciò che la critica, che giudica sulla base di un canone stabile, tende a non valutare e le università, le scuole di scrittura e i pareri degli esperti tendono a uniformare l’espressività di chi esplora questo mondo, producendo il peggiore degli effetti: o diventiamo a nostra volta narcisisti letterari, oppure lasciamo perdere, questo mondo non fa per noi.

La minaccia del “petrarchino”

narcisismo letterario

Nella seconda metà del ‘500, Pietro Bembo erge a fari della scrittura italiana Giovanni Boccaccio per la prosa e Francesco Petrarca per la poesia. Il loro stile è quello regio, l’impronta da seguire, al punto che grandi autori come Ludovico Ariosto rivedono i propri scritti per seguire le linee guida di Bembo. Fra i poeti meno noti, si sviluppa così l’idea che sia l’adeguamento a uno stile a fornire l’agognata fama (perché, lo abbiamo detto, il narcisista cerca gratificazione).

I “petrarchini” erano piccoli libriccini che contenevano le rime più famose del grande poeta ordinate alfabeticamente. Divengono in breve strumenti essenziali per i poeti in erba, che si esercitano copiando gli abbinamenti in rima del famoso autore. Ci vorrà l’800 perché la poesia italiana inizi a uscire da questo pantano stilistico, guidata dalle idee risorgimentali prima e dalle avanguardie del ‘900 poi.

Quando mi capita di leggere critica letteraria oggi, di ascoltare qualcuno che parla di letteratura vedendo fra le righe spettri di messaggi insondabili o di leggere recensioni che parlano di non si sa bene che cosa, mi viene da pensare che ci sia una pericolosa tendenza all’adeguamento. Che il libro, così come il cinema, diventi qualcosa di dedicato a chi vuole trasmettere profondi messaggi indecifrabili (e pazienza se nessuno li capisce) per seguire un treno stilistico che già di suo arranca visibilmente.

Il più delle volte, chi si erge a paladino di questo carrozzone fatica a spiegarne i motivi e preferisce liquidare come ignorante chiunque non la pensi come lui. Queste persone si reputano intellettuali, mentre professano il più becero oscurantismo delle opinioni. Chi si scontra contro questo muro pensa che la cultura non faccia per lui e smette di leggere, abbandona il cinema e ci rende un popolo sempre più distante dalla cultura.

Il mio consiglio è di mandarli a fare in culo, continuare sulla vostra strada e, se possibile, ridere quando vi danno dell’ignorante, sapendo che tutti si ricorderanno di Petrarca, ma non di chi scriveva con in tasca i petrarchini.

di Emmanuele Ettore Vercillo

 

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