Fin dalla loro scoperta avvenuta ormai due secoli fa, i dinosauri hanno colpito l’immaginario delle persone, scienziati e non. Le loro forme così “draghesche” li ponevano quasi vicino al mito, rappresentando una realtà che nessuno aveva mai visto, e che nessuno potrà mai vedere.
È quindi cosa ovvia che tutti, nel corso degli anni, abbiano sviluppato una certa ossessione nel voler riportarli in vita. Dopotutto, come umani siamo mossi da una curiosità intrinseca alla nostra ricerca del sapere, e tendiamo con tutte le nostre forze a risolvere i grandi misteri del pianeta e della vita.
La realtà moderna della Natura, per quanto meravigliosa e accattivante, non potrà mai – e qui inserisco un immenso IMHO, “in my honest opinion” – eguagliare ciò che è avvenuto in passato. Per esempio, siamo abituati a considerare l’elefante come l’animale terrestre più grande. Negli zoo spopolano, infatti. Ma, in confronto ai gargantueschi sauropodi del Cretaceo, potrebbero dire “mi sento così… piccolo”, citando il Mammuth “Manny” del film Blue Sky Studios “L’Era Glaciale 3”.
Riprendendo la frase iniziale dell’articolo, fin dalla scoperta del primo dinosauro nel 1824 (sono 200 anni, tanti auguri!), gli scienziati hanno ipotizzato – e anche tentato – di riportare in vita questi esseri quasi mitologici. Ce l’hanno fatta? Spoiler, no. O meglio, “sni”. Le teorie prevedono due maniere: una indiretta e l’altra più empirica, ma che parte da una premessa sbagliata. Lasciate che ve le spieghi.
“Bingo, Dino-DNA”
La via diretta è quella dell’industria genetica. Ma vi fermo subito, dicendovi che la premessa sbagliata della via empirica è proprio quella a cui state pensando in questo momento: non si possono ricreare dinosauri a partire dalla resina fossile.
Sì, sto parlando di Jurassic Park.
Il romanzo, scritto da Michael Crichton, partiva da un presupposto molto semplice: in passato, come oggi, potevano esistere degli insetti – o altri piccoli animali – che si cibavano del sangue delle creature, come le zanzare odierne.
Una “protozanzara”, quindi, succhia il sangue di una determinata specie di dinosauro, poi si appoggia su un tronco per digerire, e viene sfortunatamente coperta, catturata e inglobata dalla resina prodotta dall’albero. La resina si indurisce, si fossilizza, diventa “ambra” contenente questo insetto, contenente il sangue di dinosauro. Una matrioska preistorica, praticamente.
Gli scienziati scoprono tale reperto, recuperano il sangue ivi contenuto, e “bingo, dino-DNA!”. Facile, semplice, “easy peasy lemon squeezy”, chissà perché nessuno l’ha mai fatto nella vita vera…
È presto detto. Ma non è fattibile. E non perché costerebbe un fantastiliardo di dollari, ma per due motivi:
- Quello che si vede esternamente è solo l’impronta dell’insetto. L’interno si è disciolto, perché l’ambra non è un “sistema chiuso” come molti pensano. Se prendessimo un ciottolo d’ambra e lo tagliassimo a metà cercando di sezionare l’animale interno, troveremmo solo un guscio vuoto. Viene da sé che il sangue all’interno dell’insetto si è dissolto milioni di anni fa.
- Il DNA è una delle strutture biologiche più fragili che esistano. Degrada in maniera molto rapida, senza contare il rischio di contaminazioni esterne. Figuriamoci cosa ne resterebbe dopo milioni e milioni di anni (vi ricordo che i dinosauri non aviani – quindi senza contare gli uccelli veri e propri – son vissuti tra i 220 e i 66 milioni di anni fa).
A questi due punti ne subentrano altri più “pratici”, nel fantasioso caso trovassimo delle stringhe pure di DNA di dinosauro, ma al momento non ci interessasse analizzarle. Il concetto che vi voglio far passare è che la premessa e la metodologia presentate sia nel libro che nel film sono pura fantascienza, nella forma più “fanta” possibile.
MA…
Ma la via genetica c’è. In maniera più indiretta, certo, ma vi è un modo per ricreare qualcosa di simile ad uno pseudo-dinosauro.
Quei geni del pollame
John “Jack” Horner è tra i paleontologi più famosi della storia moderna. Fu il consulente scientifico sia di Crichton che di Steven Spielberg per i rispettivi lavori su Jurassic Park, la figura di Alan Grant è basata su di lui, e molto di quel che sappiamo adesso sui dinosauri lo dobbiamo in parte alle sue scoperte avvenute verso la fine degli anni ’70.
Tra le tante scoperte fatte nel corso della sua vita, Jack, insieme al compianto Bob Makela, scoprì “Egg Mountain”, il primo sito dove sono stati rinvenuti numerosi nidi, appartenuti al dinosauro dal becco ad anatra Maiasaura peeblesorum, suggerendo così che in alcune specie di dinosauro si potessero riscontrare cure parentali e quindi comportamenti più sofisticati rispetto a quelli ipotizzati in passato (qui si potrebbe aprire un mondo di discussioni su critiche e sviluppi pubblicati nei decenni successivi, ma per ora va bene così).
Nel suo modo poco ortodosso di gestire la ricerca, Jack ha sempre cercato di provocare lo “status quo” delle conoscenze paleontologiche, spronando le nuove generazioni a cercare nuove metodologie di analisi. E un argomento lo ha sempre ossessionato: il voler vedere un dinosauro vivo.
Capendo che l’ambra non era la via adatta, Jack si diresse verso un altro ambito della genetica: l’inibizione genica. Sembra una parola difficile, e lo è, ma cercherò di spiegarvela nella maniera più semplice.
Gli uccelli sono dinosauri. Ergo, i polli sono dinosauri.
Questa informazione è preservata nel corredo genetico degli uccelli, e quindi dei polli.
Nel corso dello sviluppo dell’embrione all’interno dell’uovo, l’embriogenesi, quello che poi sarà il pulcino mostra una serie di caratteri anatomici reminiscenti di quel passato mesozoico: un abbozzo di coda allungata, un abbozzo di denti nel becco, arti anteriori non formati ad ala ma con abbozzi di dita libere, etc etc.
Ad un certo punto dello sviluppo del pulcino dentro l’uovo, dei geni inibitori segnalano al proprio sistema embrionale di “spegnere” la codifica di questi caratteri: la coda viene “persa” sviluppandosi nel pigostilo (il piccolo abbozzo di coda dove si innestano le penne caudali), il becco si priva dei denti, la mano si unisce a formare la tipica ala che noi mangiamo anche fritta, etc.
Quello che sarebbe potuto diventare un dinosauro, si sviluppa nella gallina che noi conosciamo. E il tutto avviene all’interno delle uova in poche settimane.
Ma cosa succederebbe se noi inibissimo quei geni inibitori?
I polli producono centinaia di uova su larga scala. Quindi, si ha la possibilità di produrre embrioni in maniera molto veloce e guidata, controllando metodologicamente lo sviluppo degli stessi in maniera categorica. Ed è proprio qui che subentra il progetto “Chickensaurus” di Jack Horner, ossia inibire i geni inibitori nelle uova dei polli per far nascere un pollo che avrà la forma di un qualcosa di simile ad un dinosauro. Un pollo con una lunga coda, arti dalle mani artigliate e libere, denti nel becco e molti altri caratteri.
Ovviamente, pollo era e pollo rimane. Non si trasformerà in una macchina di morte che seminerà il terrore in Costa Rica, ma sarà un pollo che avrà semplicemente difficoltà a deambulare e a mangiare.
Questa ricerca può sembrare fine a sé stessa, ma non è così. L’inibizione dei geni può e sarà probabilmente il futuro dell’industria medica umana, dando la possibilità di “spegnere” geni che causerebbero tumori e altre malattie a base genetica. Ovviamente, testare sulle persone è costoso e richiede del tempo, e non sempre si trovano i fondi necessari.
Quindi, perché non fare la stessa cosa, testando metodologie e presupposti, su animali comuni che già di loro producono migliaia di uova, attirando molto probabilmente l’attenzione degli investitori?
Il Pollosauro salverà l’umanità.
Di china e di pixel
L’industria genetica potrebbe darci la possibilità di vedere un simil-dinosauro?
Forse sì, forse no, forse se ne parlerà in futuro. Ma, nel frattempo, noi abbiamo un metodo indiretto per riportare in vita i dinosauri:
L’Arte.
O meglio, la paleoarte, o illustrazione paleontologica.
Certo, non passeremo le giornate sotto il sole cocente di isole ai tropici o di parchi in valli temperate a guardarli girovagare per enormi recinti, ma che siano su una tela a colori acrilici o su file digitali ricchi di pixel colorati, noi possiamo vederli di nuovo in vita.
Le recenti analisi e scoperte di molecole di colore fossili ci avvicinano ancora di più a capire che colore avessero, o almeno che gamma di colori potevano sfoggiare. Reperti mummificati con pelle fossilizzata e persino organi interni preservati ci suggeriscono l’aspetto generale, anche se non sapremo MAI ESATTAMENTE come fossero realmente.
Ci separano comunque da 220 a 66 milioni di anni, e quello che abbiamo il più delle volte sono solo scheletri mancanti di tutta la sovrastruttura di parti molli che spesso rendono l’aspetto finale dell’animale molto diverso dalla sua struttura scheletrica (pensate ai crani delle balene o degli ippopotami per dire). Saremo sempre in cerca della ricostruzione più accurata possibile, non riuscendoci mai ma avvicinandoci sempre di più
Ma, alla fine, non è forse questo il bello dei dinosauri?
di Filippo Bertozzo