La città di Torino, questo mese e fino a febbraio, ci regala una delle mostre più particolari ed attese per gli amanti degli Xenomorfi: “Beyond Alien: H. R. Giger”. Ed è proprio questa la cosa che mi ha sorpresa di più: scoprire ed apprezzare tutto il vastissimo lavoro dell’artista elvetico, oltre ciò che lo ha reso famoso.
Giger: Alien e oltre
La mostra si apre con le stanze dedicate chiaramente ad Alien (con una bellissima Sfinge/Xenomorfo a darci il benvenuto).
Abbiamo bozzetti e creature dell’universo creato da Ridley Scott; i disegni dell’interno delle astronavi, utilizzati poi in Alien: Covenant; le famose uova, inizialmente con due petali poi evoluti a quattro, corredati dalle informazioni tecniche.
Insomma, un paradiso per gli amanti della saga! Già all’interno di queste sale troviamo i panel che ci descrivono la vita di Giger. Scopriamo ad esempio che era figlio di un farmacista e che era affascinato dalle ampolle, dalle polveri e soprattutto dalle sanguisughe che il padre teneva nel locale.
Il curatore Marco Witzig vuole subito farci immergere nella vita dell’artista: il segno indelebile della seconda guerra mondiale che ha segnato Giger fin dall’infanzia è l’evidente fil rouge che segna tutte le sue opere.
Le scenografie di Giger per il “Dune” perduto
Un attimo dopo infatti siamo catapultati nel mondo di Dune, per cui il regista Alejandro Jodorowsky nei primi anni ‘70 lo scritturò, su suggerimento di Salvador Dalì, dicendo di aver assoluto bisogno della sua “arte malata”. Film mai venuto alla luce, purtroppo, ma di cui abbiamo lo storyboard e tante altre cose interessanti.
“Malata”, assolutamente, la caratterizzazione dell’universo degli Harkonnen, che fa da precursore a quello che, pochi anni dopo, sarebbe stato l’universo di Alien.
Troviamo la miniatura della sala da pranzo, in cui viene assassinato il padre di Paul Atreides e l’unica sedia sopravvissuta – più o meno – con una gamba danneggiata dal cantante dei Rammstein, Till Lindemann, che vi si appoggiò durante un concerto.
L’uomo e la macchina, tra paura e angoscia
Giger, senza alcun velo e senza remore, rende partecipe della sua angoscia lo spettatore, l’angoscia delle macchine da guerra, del pianeta devastato dalla cieca fame dell’uomo, degli orrori che i conflitti armati portano fisicamente sulle persone.
Viene mostrato lo studio profondo di Giger sulle protesi dei feriti di guerra, con un’accezione disumanizzante come a dire “ora quest’uomo può divenire qualsiasi cosa, i suoi arti possono diventare armi, la persona può diventare una macchina”.
La mostra prosegue facendoci immergere in questa paura di Giger. Diverse stanze ci mostrano uomini e donne, fusi con tubi e valvole. La crasi tra l’uomo e la macchina, la biomeccanica e l’umanità che fatica ad emergere, trasformando gli arti in armi. L’atto del parto come catena di montaggio di nascituri già equipaggiati con pistole e maschera anti-gas, pronti ad affrontare l’incubo che li attende all’esterno.
E qui notiamo un altro aspetto dell’artista: la sua totale avversione a quella società che era contro aborto e anticoncezionali. Giger si chiedeva come fosse possibile privare le donne della scelta di non mettere al mondo figli non voluti, su un pianeta ove caos, guerre, fame, malattie sembrano non avere mai una fine.
Tutto questo è raccontato egregiamente nella proiezione che troviamo all’interno della mostra. L’asetticità degli studi sulle protesi e la loro evoluzione a parte integrante dell’uomo, la paura della sovrappopolazione, della morte, esorcizzata dalla trasposizione dei vermi sui cadaveri in cavi e tubi che escono ed entrano dalle sue creature.
Nonostante la crudezza della sua visione e il racconto della stessa nella mostra, non si può che rimanere affascinati da come Giger trasforma i suoi incubi in arte, mettendo a tacere le sue paure una volta espresse su carta, con l’aerografo, chine e matite.
Il lavoro con Carlo Rambaldi
La proiezione prosegue con il racconto della creazione dello Xenomorfo – del mostro, come viene spesso chiamato. Ci viene detto che Scott, appena vide le opere di Giger, non ebbe più dubbi:
“Smettiamo di cercare, è lui il nostro uomo”.
Veniamo catapultati in un mondo di plastilina, cavi e leve, muscoli posticci che ci lasciano a bocca aperta. Perché, sì, siamo negli anni ’80 e il regista non lesinò sulle persone che volle accanto per realizzare la più terribile creatura di tutti i tempi. Verosimile, benché fantastica. Ed è questo che il mostro ci trasmette, la paura di qualcosa che è talmente bella e ben fatta da sembrare vera.
Il lavoro assieme a Carlo Rambaldi (vincitore del Oscar Special Achievement Award per i migliori effetti speciali nel King Kong di John Guillermin del 1976) è evidente in Alien. L’animatronica dello Xenomorfo lascia a bocca aperta. L’Alien ha un intero sistema muscolo-scheletrico azionato a distanza che lo rende praticamente vivo agli occhi dello spettatore.
L’ossessione della perfezione dei due porta a costruire gli ambienti del film Alien a grandezza naturale. Le uova dei facehugger sono alte un metro, fatte di carne, melma e argilla per rendere tutto incredibilmente realistico.
Il contributo di Giger nel mondo della musica
La mostra si chiude esibendo i lavori di Giger per alcuni gruppi musicali. Da Emerson, Lake and Palmer, passando per Blondie e i Korn, con la loro celebre asta del microfono.
Ogni cosa, ogni arte in cui Giger è stato coinvolto, ha lasciato un segno indelebile.
Il lavoro di Giger è riconoscibile, e usato ancora oggi come spunto, idea, fonte da cui attingere quando si deve comunicare paura e disagio. Ma con quel tocco estetico, di bellezza, che solo lui è stato in grado di creare.
di Martina Carnio