Se di giorno cerco la forza tra le dita delle mani, frugando sopra i polpastrelli e tra le unghie pur di recuperarne anche solo una briciola, di notte la melanconia mi percuote, arpionando le spalle al letto e costringendomi a non muovere un muscolo.
Il senso di insofferenza, a volte, è talmente tanto pesante da avvolgermi in due giri di piumone. Ovattato, il mondo sembra possa fare meno male. Sotto chili di lenzuola, in isolamento.
Perché se non mi muovo, non posso deludermi.
Così racconto la sensazione che provo in questo momento, mentre scrivo con lentezza esasperante l’editoriale di novembre. Perché di melanconia ci si ciba e si sopravvive a stento, però è anche il male degli eroi e degli artisti, quindi una piccola lancia a suo favore sento di doverla spezzare.
Blu notte, la melanconia che evolve di generazione
Non sto a spiegare il significato che porta il termine bile nera a diventare Melanconia. Non andrò a indagare sulla teoria umorale, tanto utilizzata nella medicina di un tempo e che non ci compete più da secoli.
Nei romanzi storici, come accennavo, gli eroi melanconici snudavano le loro spade al suono di guerre elleniche e sangue versato. Ancora, i quadri rappresentavano le vittime di questa strana e vischiosa sostanza come cani dormienti, in attesa di azzannare chi osava disturbare il loro sonno.
Non ci compete più, non oggi.
Se prima la melanconia, nei suoi toni scuri di attesa e imprevedibilità, poteva portare chi ne era affetto ad azioni inconsulte, ai nostri giorni li ritroviamo invece rinchiusi dentro piccole stanze a osservare le stelle da una finestra a tende socchiuse.
Quella nota di tristezza, come cantata tanto volentieri da labbra scure in riva al Mississippi, è tanto attuale quanto specchio dell’animo sociale. O, ancora, quella di un orfano Bruce Wayne nella contemplazione del ricordo di un abbraccio, che non reca più il calore dei suoi genitori sulla pelle.
Il desiderio si ritira, quasi annientato da un senso di immobilità sicura nell’attesa di svanire, ruotando i giorni oltre le mura della propria casa. Esattamente come gironi dell’inferno: in un moto di ribellione, però, tutto questo dovrà pur terminare.
Forse in un altro giorno, un altro tempo.
Rompere il silenzio, costringersi a vivere
Un’abitudine, l’abbandono alla tristezza e alla continua e attanagliante sensazione di inadeguatezza. Rassegnarsi forse è il più grande degli sgambetti che possono intralciare il nostro cammino. Ci si deve costringere ad alzare la voce, anche se non è nostra abitudine, e compiere azioni mantenendo fede alla propria natura.
Il pipistrello che di notte sorveglia Gotham, non è esso stesso un riflesso attivo di quel melanconico Bruce, che osserva il camino di notte, accanto al suo fedele Alfred?
Lo so, lo so, la tristezza è una comfort zone invitante. La melanconia, un letto di seta e vetro. Eppure ogni tanto mettere alla prova ciò che ci circonda, senza porci chissà quali limiti od obiettivi impervi, può rivelare sorprese inattese.
Compiere il proprio destino, ad esempio, coltivare le passioni apprese tra le pagine dei manga o nelle avventure dell’ultima storia fantasy in pixel.
Una quest completata alla volta, ci si costringe a vivere.
Un dolce mescolato al sapore aspro della tristezza. È unicità, è intimamente soddisfacente, è esattamente come desideriamo possa essere, anche se non lo speravamo neanche.
Miriam My Caruso