Lo sguardo che il figlio (termine da intendersi libero dal genere) ha sul mondo è guidato dalle dita sollevate dei propri genitori: essi indicano la strada, la differenza tra ciò che si fa e ciò che non si fa (secondo la propria etica), che non bisogna stare troppo in acqua a mare altrimenti le dita si accartocciano e che bisogna finire tutto il cibo nel piatto perché non vada sprecato.
Figli che camminano alla ricerca della loro identità nella società, nel formare la propria personalità, stile, modo di porsi con gli altri. Tutto ciò con la coscienza di chi ha, alle spalle, quell’affetto incondizionato e particolareggiato che solo chi ti ha cresciuto può adottare.
Purtroppo, però, accade che questi concetti che per molti sono scontati, a volte anche soffocanti in apprensione, per altri sono esperienze prive di un significato concreto. Lontani dalla conoscenza, lontani dal calore sulla pelle.
Immaginiamo in questo scenario, quindi, cosa possa significare dover custodire la propria identità di genere sotto uno strato difensivo, per non dispiacere chi continua a riempire quel piatto a pranzo e a cena o a chi non si cura della sofferenza che può generare questo stato di invisibilità e indifferenza.
Girarsi dall’altra parte, oltre il buio della stanzetta
Guardare i genitori da oltre il buio della propria stanza, abbandonati a sé stessi tanto da rendere i propri bisogni inesistenti. In molti, ad oggi, sopportano e subiscono tale indifferenza, crescendo tristi nello sguardo e demotivati all’aprirsi a nuove esperienze.
Ne ascolto tanti, di questi racconti. Come altrettante sono le frasi che reputano gigantesche le “pretese” della comunità LGBTQ+ di poter vivere semplicemente come molti altri, di poter sfilare nel pride o baciare il proprio amore in pieno giorno. Ancora, di poter banalmente camminare per strada.
Voltarsi dall’altro lato, esattamente come quei genitori disattenti che sperano che i figli crescano da soli e possano occuparsi della loro vecchiaia, senza disturbare nel cammino di crescita. Eppure per strada si muore solo per aver sfiorato le mani di chi si ha nel cuore. Si prendono botte per uno smalto su mani maschili. Si spera in una fine, qualsiasi essa sia, solo perché la sofferenza è troppo grande per accettarla.
Se per il mondo non sono niente, perché continuare a respirare?
Scuola, un’ancora o una deadline?
Nel posto che dovrebbe impartire cultura, proprio quest’ultima si frantuma in mille schegge. La figura educante insegna il rispetto, di norma, e la coesione tra individui, rendendo speciale ogni capacità. In teoria.
In alcuni casi, però, anche tra i banchi vi è quella discriminazione che porta a un disagio più evidente. Tanto da rischiare di portare a un’elisione totale con il contesto sociale. Tanto da portare a sentirsi ancora più soli, ancora più invisibili, ancora più sbagliati.
Ho ascoltato un racconto che narra questa sofferenza tra le parole: non è importante l’accuratezza dei fatti descritti, ma i sentimenti incrinati che diventano quell’angoscia condivisa da tanti, troppi, inutilmente. In grado di rovinare la vita, che poteva essere e non è per colpa di regole inventate per preservare un modo di intendere la società arcaico e omofobo.
Amareggiati ma ancora vivi
Non mi piace terminare gli editoriali senza un risvolto positivo. Soprattutto se posso diffondere un po’ di amore e calore oltre le mie braccia, tra queste parole, a chi mi legge.
Perché l’anomalia non è nel come ci percepiamo o per l’onestà con cui vogliamo semplicemente essere. L’anomalia risiede nel non accettare le tantissime possibilità che ci vengono date solo per essere al mondo. Tante e diverse, tutte meravigliose. Nel mese del Pride questa sofferenza è ancora più evidente e spinge a riflettere sul concetto che c’è ancora molto da lavorare affinché la società possa essere realmente libera.
Nel mese del Pride a molti è negata la possibilità di scegliersi. Ma noi siamo qua, siamo tanti e non ci importa poi tanto di quello che pensa chi non vede con i propri occhi.
Ci sentiamo: tra affetto, abbracci, pantaloni rosa e smalti sgargianti. Bellissimi e unici.
Miriam “My” Caruso