Menzogna e politica sono, da sempre, due concetti che hanno la cattiva abitudine di viaggiare insieme. Ce ne rendiamo conto tutti e tutti siamo più o meno abituati a masticare concetti come la propaganda, che ruotano per loro stessa natura intorno alla menzogna necessaria.
C’è però un piccolo dettaglio che, nel tempo, dev’esserci sfuggito: non è solo ai regimi autoritari che questi concetti si rifanno. Non vi infiammate: non voglio fare il complottista, ma soltanto raccontare una riflessione, che si fonda un po’ sulla storia e un po’ sull’esercizio del pensiero. Quindi mettiamo su un caffè, sediamoci comodi e affrontiamo questo bizzarro viaggio nella realtà delle menzogne.
La menzogna democratica: antica quanto la democrazia stessa
Probabilmente, siamo per formazione portati a vedere la menzogna nei regimi democratici come una deformazione degli stessi. In fondo, concetti come la propaganda appartengono ai regimi, che hanno, per loro natura, la necessità di offuscare la verità.
Ma la storia c’insegna che questo non è affatto vero. Se c’è una cosa che tutti sappiamo, è che la democrazia nasce nell’antica Atene: la più celebrata realtà di politica partecipativa che, per la prima volta, si estendeva a tutti i cittadini che avessero la possibilità. Certo, “tutti” si fa per dire, visto che donne o schiavi restavano esclusi, ma avete capito il concetto.
Eppure, già quella primordiale forma democratica nascondeva le sue insidie: non è un caso che già Aristotele si dimostrasse scettico nei suoi confronti, facendo notare come la democrazia fosse sì un governo dei molti, ma in cui le energie vengono indirizzate verso l’interesse di pochi, quelli che oggi chiameremo la maggioranza. Il suo timore, in sostanza, è che la democrazia si trasformi in un mezzo per raggiungere la vendetta o far valere le proprie rivendicazioni economiche.
Con il tempo, abbiamo iniziato a chiamare questo tipo di regime cachistocrazia, cioè governo dei peggiori, raccontandoci la favola che sia una degenerazione dei regimi democratici, ma la realtà storica è ben diversa.
Atene VS Sparta
Ce lo testimonia la stessa Atene quando, negli antefatti della Guerra del Peloponneso e, in seguito, durante il suo svolgimento, vide una costante manipolazione dell’informazione mirata a virare l’opinione dell’assemblea verso scelte che si rivelarono disastrose per la tenuta della polis stessa, che inizierà infatti a sfaldarsi dopo la fallimentare campagna in Sicilia di Alcibiade.
Questo contesto, peraltro, ci permette di osservare come il regime aristocratico e oligarchico di Sparta, al contrario di quello democratico di Atene, non fosse affatto interessato né alla conquista né ad esercitare un’imperitura influenza economica su tutta la Grecia.
Quindi, guardando al nostro presente, che possiamo dire della democrazia?
Si vis pacem, para bellum
Preparare il popolo alla guerra: è sempre stato un problema di tutte le forme governative, legato al fatto che, alla fine, è il popolo che deve combatterle davvero, le guerre. Oggi, però, il nostro modo di trasmettere la storia sembra aver smarrito la dimensione di questo racconto, quella che è sempre stata una sostanziale propaganda, mirata a vendere l’inevitabilità della guerra.
Facciamo un salto nel Novecento: il cosiddetto secolo breve, attraversato da due delle più feroci guerre che la storia ricordi. Oggi tendiamo a dimenticare quanto l’invasione propagandistica nel mondo culturale abbia influenzato questi due avvenimenti e non soltanto nella Seconda Guerra Mondiale, segnata come sappiamo dall’avvento di regimi totalitari.
Pensate che, fra la fine dell’Ottocento e la Prima Guerra Mondiale, si sviluppò un intero filone letterario, che oggi ricordiamo come “letteratura della prossima guerra”, che non aveva altro scopo se non quello di propagandare la necessità di prepararsi al conflitto. Capostipite di questo filone letterario fu La battaglia di Dorking, scritto dal militare George Chesney, mirato ad allarmare popolo e opinione pubblica in merito alla necessità di rinforzare l’esercito inglese.
Questo filone letterario seguiva uno schema ben preciso di costruzione del significato: creare un nemico disumanizzato, che il pubblico potesse facilmente identificare come male assoluto, fare leva su emozioni come la paura o la pubblica indignazione e, soprattutto, zittire le opinioni contrarie attraverso il contesto protetto di un romanzo.
Questo meccanismo di paura spinse le grandi potenze europee a stringere alleanze militari e furono proprio quelle alleanze a trascinarci, uno dietro l’altro come tessere del domino, nel primo conflitto mondiale. Non l’Arciduca Ferdinando che, pace all’anima sua, dovremmo iniziare a lasciare in pace.
Ma oggi non è più così… Giusto?
Sbagliato.
Oggi viviamo in un paese dove un militare graduato pubblica un libro carico d’odio, che si rivela una leva così forte da renderlo europarlamentare.
L’Europa moderna, che amava definirsi “progetto di pace”, oggi investe in armi e frontiere. I suoi ideali di collaborazione diventano retorica da convegno, mentre il riarmo si presenta come dovere morale. Tutto per difenderci da Putin e la Russia: il nuovo nemico, il nuovo male, di cui non è importante sentire le ragioni.
Dietro a queste scelte politiche, però, non c’è una necessità inevitabile, ma una narrazione costruita per farla sembrare tale. La politica, estera o interna, della nostra modernità si è mutata in un esercizio di narrazione, qualcosa che gli antichi avrebbero chiamato oratoria, ma che oggi si maschera da oggettività. Un racconto che semplifica, polarizza, esclude: trasforma ogni alternativa in eresia.
Ma non è così. Non è mai così. E forse, dovremmo tutti iniziare a ricordarcelo.
di Emmanuele Ettore Vercillo