Vi ha mai colpito una profonda e incontrollabile tristezza?

Quella che vi accompagna nel tempo, rimanendo costante come un rumore di fondo, che non esagera mai troppo nel suo incedere ma che comunque resta lì, compagna fedele di vita. Questa tristezza immotivata non è un’esperienza, sappiatelo, vissuta solo da voi: il mondo dell’arte, a testimonianza di questo, è ricco di autori che hanno abbracciato questo profondo e ancestrale malumore, spesso trasformandolo in opere magistrali di cui manteniamo ancora memoria.

Ma se questo distruttivo stato d’animo è così permeante nella storia dell’uomo, la sua natura, spesso fuggevole, è cambiata nel corso degli anni, accompagnando l’evolversi della società e arricchendosi di nuove ragioni che possono alimentarla. Oggi parliamo di melanconia e, soprattutto, di come questa ha attraversato il mondo dell’arte.

Il «nulla a ogni istante»

tristezza leopardi

Così definì la melanconia uno degli autori che, più di chiunque altro, viene associato alla visione pessimistica dell’esistenza: Giacomo Leopardi. E non lasciatevi infinocchiare da chi ha l’ardire di sostenere come la sua poetica fosse, in realtà, un inno alla vita: se avesse conosciuto uno psicologo, probabilmente, Leopardi avrebbe scoperto di soffrire di un’inspiegabile tristezza immotivata.

Ma purtroppo, il poeta era ben lontano dalla società che vedeva la normalità negli stati depressivi, faceva ampio ricorso a farmaci regolatori dell’umore e a terapie indirizzate e complesse. Leopardi aveva solo sé stesso per fronteggiare quell’angosciante «nulla a ogni istante». E così, chiuso nel suo studio, Leopardi leggeva, ammirava il mondo da una finestra e rifletteva su ciò che il suo stato d’animo potesse mai rappresentare davvero.

Approdò così a quella nota poetica che oggi chiamiamo del pessimismo cosmico, cioè l’idea che l’uomo, per sua stessa natura, sia condannato all’infelicità e che non esista alcuna via di scampo, se non le flebili gioie passeggere che ogni uomo può sperimentare.

Per Leopardi, l’uomo è condannato all’infelicità e lo è per un motivo ben preciso: la ricerca del piacere. Ironico risvolto, infatti, secondo il poeta è proprio la nostra continua ricerca di soddisfazione a condurci in un’infinita spirale d’insoddisfazione. L’uomo vuol sempre di più e, quando l’ha ottenuto, allora si prefissa un nuovo e più irraggiungibile traguardo.

È questo, alla fine, a condannarlo a un’esistenza infelice, nella quale è impossibilitato da sé stesso a godere dei piaceri della sua stessa vita.

La società moderna e la sua “evoluzione”

tristezza verga

Potrebbe suonare in un certo senso strano ma, a fare eco alla visione infinitamente disfattista di Leopardi, è, in una certa misura, il simbolo sacro del Verismo: Giovanni Verga. Già il nome della corrente letteraria di cui fa parte, d’altronde, si arroga il pesante compito di raccontare la verità. E chi, colpito da una sfida del genere, potrebbe mai uscirne incolume?

Verga racconta le distorsioni di una società in movimento, che viaggia verso una modernità utopica, così travolgente che la definisce fiumana del progresso. Una fiumana impetuosa, spietata, che poco sicura di chi rimane ucciso dal suo incedere.

In Verga, il pessimismo assume una nuova dimensione: se per Leopardi la ricerca del piacere ci rendeva insoddisfatti, per Verga è il continuo tentativo di soddisfare un egoistico miglioramento a creare una lunghissima schiera di vinti, che cadono alle nostre spalle nel processo.

Ma c’è un monito, al quale bisogna prestare attenzione, ed è quello di non gioire troppo del proprio successo perché i vincitori di oggi saranno i vinti di domani. E d’altronde, come potrebbe essere altrimenti in una società così crudelmente darwinista?

Aveva ragione Dickens(?)

tristezza

In una delle sue opere più famose, A Christmas Carol, Charles Dickens vuole comunicarci un messaggio non troppo distante da quello di Verga: il nostro arrivismo, la voglia di superare gli altri e risultare migliori, inquinano le nostre menti. E non pensiamo solo al denaro e la ricchezza, mezzi per trasmettere un messaggio, ma alla nostra intera esperienza umana.

Pensiamo al bisogno di ricevere quel messaggio, di essere noi a lasciare il fidanzato/a per risultare “vincitori” o alla necessità di ottenere la sacra trinità: casa, lavoro e moglie/marito. Pensiamoci e accorgiamoci che nessuna di queste cose ci renderà davvero felici, non se deve farlo da sola almeno.

Forse, per essere davvero felici, come diceva Leopardi, è necessario lasciarsi trasportare dalla propria immaginazione, sognare come solo i bambini sanno fare e, in questo modo, magari riusciremo a liberarci di quel fastidioso rumore di fondo, per riuscire a fantasticare su cosa ci sia oltre quella siepe.

di Emmanuele Ettore Vercillo

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