“Got no feel, I got no rhythm
I just keep losing my beat (you just keep losing and losing)
I’m OK, I’m alright (he’s alright, he’s alright)
I ain’t gonna face no defeat (Yeah, yeah)
I just gotta get out of this prison cell
One day (someday) I’m gonna be free, Lord!”
La mia regina ha i baffi. Li ha, al presente. Sì, perché negli ultimi anni, da quando è uscito il film Bohemian Rhapsody in particolare, Freddie Mercury non potrebbe essere più presente di così.
Vi ho sentiti sbuffare, sapete? Sono ormai passati 4 anni dall’uscita del discusso biopic (la versione karaoke di esso, con i sottotitoli che autorizzavano a cantare a squarciagola in sala, usciva il 22 gennaio 2019), ma le polemiche al riguardo si fanno ancora sentire. Anche tra di voi che leggete, ci sono sicuramente alcuni che non hanno apprezzato Bohemian Rhapsody o sono rimasti quantomeno infastiditi dalle libertà che si è preso nel raccontare alcuni passaggi della storia del gruppo, oppure che ritengono Rami Malek un pessimo imitatore non meritevole del Premio Oscar.
I motivi principali per cui il film è stato tanto criticato, più che le performance attoriali (che io personalmente ho apprezzato), sono probabilmente le licenze narrative che si sono tradotte in qualche incongruenza, causando le ire dei fan più accaniti, non contenti dell’immagine restituita sia del percorso della band, sia delle personalità dei componenti di essa. Sono dibattiti ormai stantii e sarò breve nel liquidarli: per quanto mi riguarda, ciò che abbiamo visto al cinema è appunto un film, non un documentario. È pieno di biografie ufficiali là fuori, se vogliamo i fatti storici esposti in maniera filologica. Lo sappiamo che un film ha bisogno di un antagonista (ruolo ricoperto nel lungometraggio dal personaggio di Paul Prenter). Sappiamo anche che Freddie Mercury durante il Live Aid ancora non sapeva di essere malato (i test ai quali si sottoponeva risultavano in quel periodo negativi) e che la data di uscita di We will rock you non è stata collocata in modo cronologicamente corretto. E chi queste cose invece non le sa? Il “non sapere” gli ha impedito di godersi il film o di comprendere la storia dei Queen, oppure di appassionarsi per approfondirla in seguito da fonti più attendibili? Ci arriviamo.
Sono giunta alla personalissima conclusione che le persone, quando si tratta dei Queen, si dividono in due grandi categorie: quelli che li odiano, o li ritengono quantomeno sopravvalutati, e quelli che al contrario li amano talmente tanto che paradossalmente finiscono per odiare tutto ciò che viene prodotto sotto il nome Queen a partire dalla prematura dipartita di Freddie in poi.
E io, in tutto questo, dove mi colloco?
Sì, lo so cosa state pensando: “Ma che diamine ne sai tu, che non eri neanche nata. Non puoi essere una vera fan”.
Avete ragione: quando Freddie è morto, io avevo 1 anno, 1 anno e mezzo scarso. Eppure, in qualche modo, la sua musica è stata sempre presente nella mia vita. Grazie a mio padre e ai miei zii, appassionati dei Queen, le canzoni della band britannica mi sono entrate in testa fin dai miei primi anni di vita. Ho dei buffi ricordi di una Marta piccolissima che, una volta messa a nanna, nel buio sotto le coperte, intonava l’inquietante coro della sezione a canone di The Prophet’s song (con i miei genitori che puntualmente rispondevano “Dormi!”). In seguito, durante la prima adolescenza, ho avuto modo di approfondire in maniera autonoma la conoscenza dei quattro inglesi, ascoltando e leggendo voracemente tutto ciò che ero in grado di reperire (e prendendomi anche una cotta non da poco per Brian May). Questo articolo si apre con una citazione da Somebody To Love, e l’ho scelta perché ci sono davvero molto legata. Si tratta di uno dei primissimi brani che io abbia mai cantato su un palco di fronte ad un pubblico e che, poco dopo, registrai in un vero studio di incisione. Avevo circa 11 o 12 anni. I miei genitori, per il mio compleanno, decisero di regalarmi l’esperienza di registrare le mie canzoni preferite, un po’ per gioco e un po’ per imparare qualcosa, per fare esperienza insomma. Ero ancora una bambina, ma sentivo già di voler cantare nella vita. E registrare quei brani era come realizzare un piccolo sogno. Tra di essi, oltre a Somebody To Love, ce n’erano alcuni altri tratti dal repertorio di Freddie e soci. I Queen per me erano, già da allora, un punto di riferimento, “IL” punto di riferimento. Nella mia mente di ragazzina la loro musica, le loro note, i loro arrangiamenti, suscitavano delle emozioni che solo loro riuscivano ad accendere. Sembrerà esagerato ma tutt’ora sento Freddie un po’ come il mio “spirito guida” e la mia più grande fonte di ispirazione.
Quindi, dove mi schiero io tra gli haters e i fan che rompono e diventano più haters degli haters?
Provo a restare tra quelli che si godono lo spettacolo. Che si lasciano intrattenere (d’altronde Freddie stesso ci cantava Let me entertain you). Per carità, questo non significa che io non rompa. Posso diventare alquanto insopportabile quando, all’interno di una qualsiasi conversazione, ad un certo punto entro in modalità “distributore-automatico-di-aneddoti-random” sui Queen: “Oh, ma lo sapete che secondo uno studio del 2011 We are the Champions è stata scientificamente dichiarata la canzone più orecchiabile della storia?”. Immaginatevi un’Aria sulla Quarta Corda in salsa rock di sottofondo, ed è subito Super Quark.
La mia Regina ha i baffi, ma non li ha sempre avuti. Gli iconici baffi sono comparsi più o meno nel periodo dell’uscita di quella canzone che fa “Mi lavo col Badedas”, oppure “Abbiamo le paste guaste”, non so come la cantiate voi. Scemenze a parte, mi riferisco ovviamente ad Another One Bites The Dust, contenuta in The Game, album del 1980. Adesso riconosciamo l’immagine di Freddie coi baffi praticamente come un’iconografia classica, il tratto distintivo del frontman dei Queen, il volto che identifica la band stessa. Ma il bello è che inizialmente i fan mica accolsero poi con così tanto calore questa scelta di look. Il disappunto si fece inequivocabile quando il pubblico, durante i concerti, iniziò a lanciare rasoi sul palco, oppure quando arrivarono spedizioni massicce di lamette alla casa discografica della band. Ma nonostante questi espliciti messaggi, ovviamente la mia Regina rimase coi baffi, tanto che li aveva anche quando è stata ospite a Sanremo nel 1984, in un’esibizione storica e memorabile. Il cantante protestò in maniera piuttosto evidente contro il playback che gli era stato imposto dalla Rai su Radio Gaga, evitando di mimare il lip synch di alcune strofe e tenendo il microfono spesso lontano dal volto. A proposito, sapete che Radio Gaga si intitola così perché il figlio di Roger Taylor commentò una canzone alla radio apostrofandola letteralmente come “cacca”? Va bene, la smetto.
Digressioni a parte, ci piaccia o no, ‘sto benedetto film è comunque stato un successo spaventoso. Intanto, persino i fan criticoni (pure se non lo vogliono ammettere) sono comunque andati al cinema a spaccarsi le corde vocali 4 anni fa. Sì, anche senza aspettare la proiezione della versione karaoke di gennaio 2019. Diciamolo, il grande merito di Bohemian Rhapsody è stato soprattutto quello di aver fatto scoprire i Queen a tutta una nuova generazione di fan, in particolare a quelli che “non erano neanche nati”, che hanno potuto incuriosirsi, andare a ricercare, conoscere e ad appassionarsi alla storia e alla musica di un gruppo che a più di 30 anni dalla morte di Freddie Mercury ancora riesce a far parlare di sé.
E per come la vedo io è un bene, perché solo così Freddie non morirà mai.
La mia Regina ha i baffi. Li ha, al presente. Perché Freddie, la sua musica e la sua brillante energia creativa sono per sempre.
di Marta “Minako” Pedoni