Un mese indietro: gli scherzi della salute mentale

Il tema di questo mese è la salute mentale. La mia combatte ormai da anni con il burnout, la rincorsa infinita verso la perfezione, evitando le buche di stress dalle quali questa strada è maledetta.

Un esempio, lampante, lo avete qua sotto. Senza la concezione di un prima o di un dopo, ma solo di una linea infinita di progetti, ho scritto l’articolo sulle menzogne (il tema del mese scorso) poco fa.

Eccolo:

Se un cosiddetto santone ci si avvicina dicendo che può renderci ricchi semplicemente toccandoci una spalla, non gli crediamo: gli voltiamo le spalle, magari gli ridiamo in faccia.
Ma se un prestigiatore ci chiede di pescare una carta, lo facciamo subito. E poi restiamo stupiti quando indovina.
Perché? Qual è la differenza?

Semplicemente, il santone ci prende in giro fingendo sia tutto vero. Il prestigiatore ci prende in giro, ma ce lo dice. Ci racconta che è tutta una bugia. Eppure ci affascina lo stesso.
Ci stupiamo proprio perché sappiamo che è una menzogna, e vogliamo capire come ci è riuscito. Ci lasciamo incantare da quello che, alla fine, è solo un attore. E accettiamo di essere ingannati, perché in cambio otteniamo un premio: lo stupore, la meraviglia, la magia.

Ho sempre pensato che le bugie a fin di bene si possano dire. Che piegare lievemente la verità, giocare con le parole come se fossero carte di un mazzo, non sia sempre sbagliato.

Non hai mentito: era davvero un mazzo di carte fatto di parole e quelle parole raccontavano il vero, ma hai scelto tu l’ordine nel quale vengono pescate. Hai dato a chi ti ascolta l’illusione di aver scelto una risposta adatta, liberamente, senza manipolazioni.
E invece è il 7 di fiori, proprio come avevi previsto. E lui accetta il tuo gioco di prestigio come una verità assoluta. Chi ci ha rimesso, davvero? Lui, che ora è felice? Non credo proprio.

Mi è capitato tante volte di ingigantire o romanzare un racconto. Non solo per intrattenere, ma per raggiungere uno scopo: magari un momento di felicità.
Il classico “va tutto bene” che ci diciamo ogni giorno è, in fondo, un piccolo romanzo: un modo sintetico per dire che sì, siamo vivi e con un tetto sopra la testa. Ma è anche un modo per rendere la realtà un po’ più sopportabile.

Big Fish

Considero Big Fish, il film di Tim Burton, uno dei suoi ultimi grandi lavori. E credo che la sua morale – almeno per chi scrive – valga molto: a forza di raccontare storie, un uomo diventa quelle storie.
Parlare per metafore non è mentire. È solo un modo per rendere più interessante quella vita grigia che, ogni tanto, ci avvolge.

Una bugia a fin di bene, ogni tanto, si può perdonare.
Ma il rischio è che le bugie funzionino un po’ come il whisky: se ne fai troppo uso, ne diventi assuefatto. Perché con le menzogne è così facile ottenere ciò che si vuole, che ti dimentichi quanta maestria serva per far scegliere la carta giusta, per segare una donna in due, per tirare fuori un coniglio da un cappello.
Quando ci si abitua troppo a mentire, anche la sfida lessicale che ogni bugia comporta diventa un semplice esercizio: un gesto automatico, ripetuto come memoria muscolare.

E così la menzogna non è più un fioretto elegante, ma una delle tante pallottole da sparare a casaccio.
Eppure, il linguaggio è già di per sé una forma di menzogna. Ogni aggettivo, ogni superlativo, può fare la differenza tra un tocco riuscito e uno fallito.
Le bugie non si dovrebbero dire.
A meno che non siano storie grandiose.

di Daniele “il Rinoceronte” Daccò

Daniele Dacco
Daniele Dacco
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