Un certo tenore di vita – I sapori di un cantante

Nella vita di un cantante lirico è fondamentale curare la propria alimentazione. Tenere in perfetta salute le corde vocali e avere allo stesso tempo la forza e le energie sufficienti per portare a termine gli intensi spettacoli sono gli obiettivi principali di ogni professionista del settore. Risultato ovvio: siamo tutti cicciottelli, stanchi e perennemente ammalati.

(Sottofondo: Aria da Suite n.3 in Re maggiore BWV 1068 di Johann Sebastian Bach, nella reinterpretazione dei The Swingle Singers del 1963 – la sigla di Superquark) L’iperbole è una figura retorica che consiste nell’esagerare la descrizione della realtà tramite espressioni che l’amplifichino, per eccesso o per difetto.

Ho voluto fare di tutta l’erba un fascio. La verità è che ultimamente il mondo dello spettacolo di oggi richiede al cantante lirico un’immagine pubblica che assomigli il più possibile alla perfezione ipocrita dei divi del cinema. Ci vorrebbero tutti bellissimi e in forma smagliante. Riuscire a soddisfare queste aspettative è una strada impervia, un percorso accidentato e cosparso di trappole, una scalinata di ottomila gradini di ottanta centimetri l’uno che porta al tempio tibetano dell’adorazione della bellezza.

Una dieta difficile

Ma perché dovrebbe essere più difficile per un cantante lirico? Insomma, la dieta è difficile per tutti, non è certo un’esclusiva della nostra privilegiatissima categoria (altra iperbole, di stampo sarcastico – sarà approfondita in futuro).

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4 piccole spezie rendono più piccante e avventuroso il piatto della dieta del cantante:

  • Stress, di cui vi ho già parlato, a cui siamo tutti sottoposti costantemente, con pressioni interne ed esterne che fanno diventare un inferno anche un’azione semplice come allacciarsi le scarpe.
  • Sforzi fisici costanti, necessari per riuscire a cantare in quel modo tutto particolare, che causano frequentissimi disturbi di reflusso gastroesofageo.
  • Viaggi, condizioni e luoghi sempre diversi, che portano a una instabilità cronica e all’abbandono di qualsiasi routine, salutare o meno.
  • La voce e la sua odiosissima delicatezza. Doversi prendere cura di uno strumento musicale invisibile, intangibile, imprevedibile, capriccioso e fragile come il vaso cinese costosissimo che assiste alla danza sfrenata dell’elefante nel minuscolo negozio di porcellane.

Se si dà retta ai massimi esperti del settore (iperbole numero tre), per preservare la nostra ugola d’oro non potremmo assolutamente ingerire caffè, cioccolato, pomodoro, latte, latticini, aglio, cipolla, spezie, peperoncino e cibi piccanti, alcol, bibite gassate, alimenti grassi, fritti, zuccheri raffinati, caramelle di qualsiasi tipo, alimenti processati, agrumi e frutta, farine bianche, cibi con glutine, cibi troppo salati, cibi troppo freddi, cibi troppo caldi…

C’è letteralmente da impazzire, e a molti in effetti succede per davvero.

Potrei dilungarmi e analizzare tutte queste cose punto per punto, e mi piacerebbe moltissimo sfatare tutti quelli che sono falsi miti privi di fondamento scientifico e figli di superstizioni ben consolidate. Sarebbe interessante ergermi a ennesimo luminare onnisciente, che dall’alto rivela misericordioso le verità finora celate ai comuni mortali. Ma, mi perdonerete, non ne ho la minima intenzione.

La vita è una, e il cibo è buono… Quasi tutto.

Una delle fortune di viaggiare in lungo e in largo è che quello che accade, ogni esperienza vissuta, la puoi associare a cibi e a veri e propri sapori diversi, ognuno che ti rimanda o viene riesumato da storie diverse, con cui si mischiano e fondono, e nella memoria è un tutt’uno di gusti.

Il sapore di Erasmus, quando passi dei mesi di studio in Polonia. Nessuno ti viene a prendere, peggio per te che arrivi di sabato sera. Tutto è chiuso, quindi non mangi. Il giorno dopo è domenica, sei solo, nessuno parla inglese, tutto è chiuso, quindi non mangi. Il giorno dopo ancora trovi un supermercato, dove l’unica cosa commestibile è una terribile insalata di tonno in scatola. Non vendono posate, alla casa dello studente non ne hanno per te, quindi usi del pane un po’ secco come forchetta.

Il sapore della fretta, quando sei a Londra, ti ci vuole un’ora e mezza per arrivare al teatro, e ogni mattina sei troppo in ritardo per fare colazione. Ma sai che alla caffetteria all’angolo potrai sempre contare su un cappuccino ustionante e una girella all’uvetta, di cui non sentirai il sapore, le papille gustative le avrai appena perse bruciate dal latte caldo.

Il sapore di nostalgia di casa, tutte le volte che ti trovi in quell’Europa centro-orientale in cui qualsiasi cosa mangi è una brodaglia iper-speziata, che se ti va bene incendierà il tuo apparato digerente solo per un paio di giorni. Oppure il leberkäse! Chi mai ha inventato il leberkäse? Tradotto alla lettera “formaggio di carne”, un ammasso di scarti tipo wurstel servito a fette e piazzato dentro panini anemici con cetrioloni tossici e altre spezie… Niente di più lontano dai dolci ricordi domestici.

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I sapori pericolosi

Il sapore di morte, quando sei ospite a pranzo nientepopodimeno che del console dell’Arabia Saudita, in un esclusivissimo ristorante libanese. Ti fidi e degusti tutto ciò che ti propinano con amabile galateo, estasiato dalla ricchezza di gusti e profumi. Finché qualcuno ti chiede se ti sono piaciute le polpettine di fave, e tu alle fave sei peggio che allergico perché nascendo ti sei perso per strada un enzima, per cui, sempre con amabile galateo, sfoggi il tuo migliore “vogliate scusarmi…” prima di alzarti dal tavolo e andare a restituire l’intero pasto al sistema fognario arabo aiutandoti con un paio di dita in gola. Cosa non si fa per sopravvivere…

Il sapore di escrementi, perché sì che sei dall’altra parte del mondo, l’Indonesia è lontana, e non puoi capire a pieno usi e costumi di popolazioni con storia e tradizioni così diverse dalle tue. Però non riesci proprio a capire a seguito di quale disgrazia o disperazione degli esseri umani possano decidere, di punto in bianco, che quello che in molti chiamano “il re dei frutti”, il durian, possa essere in qualche maniera commestibile.

Il sapore di tempesta, quando sai che ti farà male, perché sei anche intollerante al lattosio, ma tu quella fonduta di formaggio la vuoi proprio provare. È da quando leggevi Asterix e gli Elvezi, con tutti quei romani goduriosi in quel marasma formaggioso filante, che hai sempre voluto trovarti in una situazione simile. Lo sapevi, eppure ti stupisci quando dopo cena batti il record olimpico di corsa al cagotto, e la tempesta che si scatena è tra quattro mura strette, seduto e dolorante. Ma quanto era buona la fonduta…

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E i sapori belli…

…come il sapore di vacanze, ed è solo all’estero che lo fai, magari una delle poche volte che sei ospite in un hotel, quella bella colazione con pancakes, bacon, uova e tanto sciroppo d’acero.

O anche il sapore di infanzia, perché tu ami le polpette (tranne quelle di fave), e trovare a Genova, quando cammini solo e triste in una giornata uggiosa, una vera e propria “polpetteria” sembra un sogno: quelle polpette al sugo, con leggero sentore di basilico, ti teletrasportano a casa di nonna quando ancora di leggere e scrivere non ti interessava poi tanto.

E il sapore prepotente di semplicità, con quella mozzarella giusta, i pomodori di campagna, quei pochi aromi e quegli amici veri e sinceri, che una lacrimuccia non ce la fai proprio a trattenerla.

Il sapore più amaro

Quello che non ti stacchi più di dosso è il sapore di quando non ce la fai, della paura di andare avanti. Tu lavori, perché devi lavorare, ma non ti pagano, perché devi stare zitto e aspettare. Ma devi lavorare, e per lavorare devi viaggiare, e per viaggiare sei tu che devi pagare. Sei solo, lontano da tutti, e non ce la fai. I tuoi pasti migliori sono i panini imbottiti che ancora con un euro e cinquanta te la cavavi. Gli alberghi lo sono solo per la scritta fuori dalla porta scassata, ma vanno bene lo stesso, quello che ti preoccupa sono i crampi allo stomaco per la cena che hai saltato.

Il caffè allora è un lusso, ma quel giorno non ce la fai e te lo concedi. È allora che la vedi, cadere per terra dalla tasca di qualcuno: una bella banconota arancione con un cinquanta scritto sopra. Pensi subito di farlo notare al proprietario, sarebbe giusto e poco complicato. Ma hai fame, tanta fame, e non ce la fai.

Mi piace fare associazioni fantasiose, condire le tappe di questo grande viaggio con ricordi sensoriali, gusti, luci, profumi. Così magari aiuto la memoria ad archiviare bene bene tutto.

Ad ogni modo quel sapore, della paura e della fame, non me lo dimentico. E non me lo perdono mai.

di Matteo Desole

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