È davvero okay non essere okay?

“Sto in fissa con i k-drama. Sono letteralmente ossessionata da Crash Landing on You. Sono dipendente dal caffè. Sono in ansia. Sono depressa. Finito?”.
Così scrivevo tempo fa, e da qui mi sento di ripartire. Da una parte l’uso folle di termini in maniera inappropriata, esagerata, categorica. Dall’altra il trauma, la salute mentale che vacilla e noi non sappiamo più come raccontarla, come raccontarci. C’è qualcosa di profondamente paradossale nel modo in cui la salute mentale viene trattata nelle serie TV occidentali: se hai meno di vent’anni e sei protagonista di un teen drama, allora sì, puoi avere depressione, attacchi di panico, borderline, disturbi alimentari e persino un terapeuta di fiducia. Da 13 Reasons Why a Euphoria, passando per Sex Education e Skins, il dolore è giovane, vestito Zara e ha gli occhi lucidi con eyeliner waterproof.

Ma appena superi la maggiore età televisiva, puff. Nella fascia “adulta”, il disagio mentale diventa qualcosa da nascondere o ridicolizzare. I personaggi sono funzionali, funzionanti o “falliti” (per lo più). E se vanno in terapia? Devono giustificarlo, o peggio, fanno ridere.

Perché solo gli adolescenti hanno il diritto di soffrire in modo esplicito? È come se il trauma avesse una scadenza e dopo diventasse solo “carattere difficile”.

Diagnosi, Etichette & Sedute: il modello occidentale

Nel nostro Occidente, l’unica strada legittima per parlare di salute mentale è quella del terapeuta. Non c’è spazio per altre narrazioni: se hai un problema, vai in analisi. E se non ci vai, il tuo disagio non è “serio”. Se ci vai, allora sì, sei legittimato, ma con etichetta annessa.

Il problema? Che il terapeuta è spesso visto come l’equivalente psicologico dell’idraulico: lo chiami, ti aggiusta, poi vai avanti. Ma la mente umana non ha una perdita da sigillare. E chi ci va davvero, lo sa: entrare in terapia è un atto d’amore e di guerra, ma anche un passaporto sociale per essere definiti.

“Quella è borderline”. “È in burnout”. “Ha disturbi dell’umore”.

Una volta diagnosticati, siamo mappati. Archiviati.

locandina serie tv con i 4 protagonisti

Poi ci sono loro: i K-Drama

It’s Okay to Not Be Okay, My Mister, Kill Me, Heal Me, Move to Heaven.
La salute mentale non è solo una diagnosi da sventolare o uno stigma da schivare: è parte integrante dell’identità del personaggio, che non viene “curato”, ma attraversato. Il trauma non viene guarito, ma riconosciuto. La vulnerabilità non è spiegata, è espressa.

Certo, in Corea, Cina e Giappone il tabù è fortissimo: parlare di malattia mentale può ancora distruggere la tua reputazione. Ma c’è un elemento culturale che ribalta tutto: una concezione olistica dell’essere umano. Corpo, spirito, energia, emozione. Non separati. Non sezionati.

Nei K-Drama ci sono templi, arte, cucina, natura, rituali, lentezza, silenzi che parlano e immagini al rallentatore di dubbio gusto. Da noi? O si è inquadrati professionalmente altrimenti troviamo i grandi coach su Instagram e i “mentori dell’anima” tra una pubblicità di CBD e una tazza detox. E quindi bolliamo tutto come “fuffa guru”. Ma non è bianco o nero, ci sono tante sfumature in mezzo.

Perché vediamo l’olismo come folklore, mentre in Oriente è base dell’esistenza. Il problema non è il “metodo”, ma il nostro sguardo: se crediamo che guarire significhi solo sedersi su un divano e parlare di madre, perdiamo tutto il resto.

Occidente e Oriente sono due anime dello stesso disequilibrio

Da un lato, abbiamo la narrazione esplicita, quella delle diagnosi e dei percorsi terapeutici formalizzati.
Dall’altro, la narrazione implicita, quella dei gesti, delle relazioni, delle cicatrici viste come parte del paesaggio umano.

La verità è che non basta una diagnosi per capirsi, né un rituale per guarire.

Serve spazio. E tempo. E anche una nuova grammatica emotiva.
Una che non sia limitata alle etichette o ai cliché.

Perché no, non è solo “okay to not be okay”.
È okay se sei in bilico, se crolli, se cerchi. Ma lo è ancora di più provare a rimettere insieme i pezzi, anche se non torneranno mai come prima.

E se qualcuno ti dice che stai solo facendo la vittima, ricordagli che anche BoJack a volte ha provato a cambiare.
E che Ko Moon-Young non ha mai chiesto il permesso per essere devastante.

di Alessandra “Furibionda” Zanetti

Alessandra Zanetti
Alessandra Zanetti
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