Sto in fissa con i k-drama.
Sono letteralmente ossessionata da Crash Landing on you.
Sono dipendente dal caffè.
Sono in ansia.
Sono depressa.
Finito?
Queste frasi e molte altre simili sono espressioni che utilizziamo molto spesso e con leggerezza. E va bene. Purché sappiamo di che si parla. Dall’altra parte il rimbrotto per uso inappropriato di simili espressioni è opportuno se tali frasi vengono usate per sminuire o stigmatizzare qualcuno. Premetto che non mi riferisco minimamente al punto di vista clinico, non mi permetterei mai, ma affronto solo l’approccio comunicativo e dell’utilizzo delle parole.
L’iperbole è una figura retorica antica
che ci ha insegnato a non essere sempre letterali. Ed essere percepiti come tali.
Chiaro che l’iperbole costante porta all’effetto “al lupo al lupo” e quindi tara la comunicazione su un livello snaturato e differente dalla consuetudine.
C’è una fetta di comunicazione globale di stampo anglofono d’oltre oceano, ma voglio restare vaga, che muove sempre più verso l’estremizzazione comunicativa.
Io non sono fan del
“Non si può dire più niente”
perché non è così. Possiamo dire sempre tutto con educazione. Sono fan del concetto “la maleducazione ha rotto il…”, piuttosto.
E a costo che sembri un “noncielodicono”, la mia risposta è che siamo troppo immersi nella comunicazione di stampo anglofono d’oltreoceano per rendercene conto e si sta creando un divario sempre più grande tra il mondo fisico e il mondo internettiano.
L’estremizzazione comunicativa è errata per definizione stessa della comunicazione.
Comunicare significa esprimere un concetto che io penso e possibilmente in una maniera che sia intelligibile alla persona cui è rivolto. Un buon comunicatore sa arrivare a più persone possibili perché utilizza un linguaggio comprensibile.
Bisogna abbassare il livello?
Dipende da dove si parte. Che livello? Chi parla a chi? Perché la comunicazione è fatta di sfumature, variazioni e interpretazioni. Lo è a livello personale, lo è a livello di massa. È chiaro che nella comunicazione di massa non è possibile soffermarsi su tutte le sfumature che ognuno potrebbe ricevere, è difficile farle cogliere o coglierle nella comunicazione uno a uno, figuriamoci nei grandi numeri. Tuttavia la tendenza al significato estremo e letterale degli ultimi anni non sta sensibilizzando chi avrebbe bisogno di sensibilizzazione.
Sono andata fuori tema, ma in fondo il concetto è proprio questo. Sono in fissa con la comunicazione.
Sono ossessionata dal modo di parlare delle persone; le valuto dal loro modo di esprimersi e dalla loro capacità di assimilare concetti.
Nonostante sia un personaggio pubblico e cerchi di tenere un linguaggio il più “aperto a tutti” possibile, mi rendo conto che sono vecchia. Tante volte scrivo qualcosa e poi devo riformulare in maniera banalizzante, ma non perché penso che chi mi legge sia stupido, ma perché sono combattuta sempre tra chi già mi legge, ed è abituato, e chi vorrei raggiungere. Perché, se ancora non sono arrivata a quante persone vorrei, forse sto sbagliando a parlare.
Questa è la mia ossessione, continuare a chiedermi e riformulare, e ripetere e rielaborare.
Questa è un’iperbole.
Però, voglio lasciare una riflessione: stiamo attenti ai termini che utilizziamo, perché possono esagerare o ferire, ognuno ha le sue fisse e le sue sensibilità. Le parole sono importanti, così come l’osservazione: se guardo tutti i giorni la stessa serie tv, se gioco sempre allo stesso gioco, se rileggo lo stesso libro, ho per forza un problema? Perché devo essere considerato disagiato?
E chi invece chi vuole raggiungere degli obiettivi a ogni costo senza guardare in faccia a nessuno, non si può dire che sia ossessionato? Perché è un modello sociale di un certo tipo?
E perché è più accettabile la seconda della prima?
Ci sarebbero molti altri esempi, ma il mio pensiero infine è molto semplice: le ossessioni esistono, possiamo preoccuparci, possiamo parlarne, possiamo scherzarci, possiamo usare iperboli, possiamo prenderle sul serio, possiamo fare tutto quello che vogliamo… ma a volte ci sono ossessioni che non vediamo, che sono tossiche e di cui dobbiamo liberarci anche se sembrano normalizzate.
di Alessandra “Furibionda” Zanetti