Tra i palazzi moderni di Shinjuku, a Tokyo, oltre le luci al neon e il caos della vita che scorre, è nascosta una piccola via di locali uno attaccato all’altro come persone ad un concerto. Il posto si chiama “Omoide Yokocho”, ovvero il vicolo dei ricordi.
Ha un aspetto un po’ datato, con lanterne rosse appese fuori dai ristoranti, facciate in legno che si aprono su banconi consumati (e probabilmente con un buon dito di unto), griglie a cielo aperto sputacchianti fumo che non ti si leverà mai dai vestiti, così come i ricordi che ti fai quando ti fermi a mangiare o a bere qualcosa lì.
Ogni stagione decorano i fili della corrente che fanno da tenda con elementi tipici del periodo: foglie rosse in autunno, verdi in estate. E ancora fiori di ciliegio per la primavera e lucine magiche per l’inverno.
La storia di Omoide Yokocho
Le origini di Omoide Yokocho risalgono al periodo subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (intorno al 1946). L’area era stata distrutta dai bombardamenti, ed era popolata da molti sfollati. Nella zona vicino all’uscita ovest della stazione sorgevano venditori ambulanti che proponevano beni di prima necessità: vestiti, patate dolci al vapore, “oden”, dolci, libri usati, etc.
Mano mano, dopo la guerra cominciarono anche a nascere dei negozi che vendevano frattaglie di manzo o maiale.
Quindi arrivarono gli anni ’60 e per lo sviluppo del circondario della stazione, non lontana, la zona venne parzialmente demolita e ricostruita.
Fu così che prese quell’atmosfera tipicamente Showa. Il periodo Shōwa (1926–1989) è uno dei più lunghi nella storia del Giappone e coincide con il regno dell’Imperatore Hirohito. Fu un’epoca di forti contrasti: cominciò con militarismo e guerra, ma nel dopoguerra vide una rapidissima modernizzazione e crescita economica, trasformando il Paese in una potenza tecnologica. Lo stile “Shōwa-retro” oggi richiama l’atmosfera delle città giapponesi degli anni ’50‑’70, tra insegne al neon, vicoli stretti e architetture semplici.
I miei ricordi
Sembra proprio di mettere piede in una dimensione completamente diversa e non ci si stupirebbe di fare incontri fuori da ogni logica, come Komatetsu (Bakemono no ko), Kaneki Ken (Tokyo Ghoul) oppure Gojo Satoru (Jujutsu Kaisen).
Ogni volta che ci passo attraverso mi sento la pelle pizzicare ed è come se rivivessi tutti i momenti migliori che ho vissuto in Giappone dal 2007, anno in cui ho messo piede in questo Paese per la prima volta.
Sapete, quando amate molto qualcosa, di un amore platonico e a distanza, provate quasi paura quando finalmente riuscite a raggiungerla. Quello è stato per me il momento in cui ho scoperto che potevo partire per il Giappone. Atterrare a Tokyo quasi vent’anni fa è stato magico e, ormai lo sapete, non sono mai davvero tornata indietro.
Una ragazzina poco più che maggiorenne, senza telefono, in un Paese lontanissimo da casa… Non era sicuramente il Giappone che vivete ora.
Io e i miei compagni di avventura ci muovevamo con mappe e carte geografiche, chiedevamo ai poliziotti che incontravamo per strada o ai passanti quando non riuscivamo a trovare la strada.
Metà delle cose erano scritte solo in giapponese, senza nessun tipo di traslitterazione.
Una volta, in stazione, sono stata così tanto tempo a guardare le intricate linee della metropolitana che un controllore è venuto a chiedermi se avessi bisogno di aiuto.
Eppure, nonostante le difficoltà, i momenti di estremo disagio, la difficoltà di comunicare… è stato uno dei viaggi che più mi ha formata come persona.
È stato il mio battesimo del fuoco, e tutto ciò che ho visto in quel periodo mi è rimasto addosso, molto più che una diapositiva.
È una seconda pelle, l’armatura che mi protegge ogni giorno.
Il mio personale vicolo dei ricordi, che potrò ripercorrere tutte le volte che voglio.
di Monica Fumagalli