In Asia, la montagna, soprattutto in inverno, è soglia, memoria, narrazione. È lì che si concentrano molti miti orientali potenti: spiriti, passaggi, immortalità.
Anche da noi ci sono leggende alpine, streghe, orsi parlanti, santi che spaccano i massi. Le Dolomiti hanno una mitologia che non ha nulla da invidiare a quella giapponese. Eppure, lo ammetto, conosco più storie di yōkai che di creature italiane. Non perché siano migliori, ma è semplicemente andata così.
E così, nel raccontare, mi trovo più a mio agio lontano, là dove la prima neve, per esempio, ha un senso tutto suo.
La prima neve
In Corea del Sud, la prima neve (첫눈, cheotnun) è un evento quasi sacro. Si dice che se due persone si dichiarano amore durante la prima nevicata dell’anno, resteranno insieme per sempre. Per questo nei drama coreani quel momento arriva sempre con colonna sonora malinconica, zoom lento, città che si ferma. Anche in Giappone, la prima neve (初雪, hatsuyuki) è poesia. È nelle lettere d’amore, nei tanka, nei silenzi. Una metafora ricorrente di inizio e fine di cose che scendono leggere, e poi spariscono.
E in Cina?
Non esiste un vero “culto popolare”. A Pechino si parla piuttosto di “今年第一场雪” (“la prima nevicata dell’anno”), spesso con il tono pragmatico di chi sa che dovrà spalare il marciapiede. Ma la letteratura classica — specie durante la dinastia Tang — ha celebrato la neve sulle montagne sacre, tra solstizio e nevicate, con una forza simbolica che ha un lascito ancora attuale.

Penglai e Osore
Se c’è una montagna che incarna il mito nella cultura cinese, è il Monte Penglai (蓬莱山). Una vetta sacra, spesso su un’isola nascosta tra le nebbie. Si dice che lì vivano gli xian, immortali taoisti, tra gru (senza lavori in corso), acque limpide e piante che curano ogni male. Penglai è la montagna che non si trova. Appare solo a chi ha il cuore sgombro e la mente libera. In inverno, immaginiamola coperta da una neve che non bagna, che non lascia tracce. Un bianco eterno, gelo come custode dell’eternità. In Giappone, invece, la montagna sacra cambia tono. Il Monte Osore (恐山, Osorezan) è cupo, spettrale, quasi lunare. È qui che vivono le itako, medium cieche che comunicano con i defunti. Il paesaggio: vulcanico, fumante, irreale. È il luogo dove la natura sembra trattenere vivi e morti nello stesso respiro. Se Penglai è grazia e sogno, Osore è rimpianto e confine.
Le “montagne” di Seoul
E poi c’è Seoul, dove le montagne non sono solo miti: sono ovunque. Certo, le chiamano “montagne”, ma la più alta — Bukhansan — si ferma a 836 metri. Diciamo che è questione di prospettiva (e di marketing). Eppure, tra grattacieli, caffè e sottopassi infiniti, ci sono sentieri veri, scalate leggere e angoli che sembrano paralleli. Si può fare hiking lungo le antiche mura di Seoul, che salgono e scendono tra i quartieri moderni. E lungo quei percorsi si trovano templi buddisti, altari sciamanici, alberi con nastri legati, offerte di riso e frutta a divinità invisibili.
La montagna, qui, si infiltra tra i palazzi: ti osserva dal parco sotto casa, ti chiama silenziosa quando esci dalla metro, ti strizza l’occhio se hai bisogno di staccare dalla frenesia cittadina.
La montagna ascolta
Che si tratti delle vette leggendarie della Cina, dei passaggi tra vivi e morti del Giappone, o dei crinali cittadini della Corea, la montagna in Asia è sempre viva. Proprio come da noi e al contempo in maniera differente, amo le mie passeggiate in Val d’Aosta o in Trentino, così come il richiamo della Muraglia, del tempio sciamanico abbandonato nel cuore di Seoul, o i sentieri dei samurai su e giù per la Nakasendo.
In tutto questo, la montagna, c’è, è lì, ci accompagna e ci ascolta, e non importa dove ci troviamo o quale leggenda abbiamo letto, se anche noi ascoltiamo lei, avrà sempre qualcosa da insegnarci.
di Alessandra “Furibionda” Zanetti




