Avevo tredici anni.
Eravamo in gita, non so in quale cavolo di chiesa sperduta in montagna, nella neve. Un luogo storico, dicevano. Devo avere ancora delle riprese da qualche parte. So solo che ci arrivammo in pullman, dopo una quantità di curve superiore a quella delle persone presenti. Alla fine, però, quel cavolo di monastero lo raggiungemmo.
Non so perché, ma mi ricordava una di quelle chiesette che vedevo nel telefilm di Zorro che guardavano i miei. Quello con Tyrone Power (il suocero di Al Bano – sul serio, controllate).
Me ne accorsi perché nessuno dei miei compagni voleva salire sulla montagna rocciosa accanto al monastero. Ce lo proposero: c’era anche un sentiero sicuro, dissero. Accettarono in pochissimi. Io ero uno di quelli. E tutti si stupirono. Perfino i professori. Perfino io. Ero molto pigro. Lo sono ancora, qualcosa non quadrava.
Quel giorno imparai qualcosa di me.
Io ero quello che saltava ginnastica, se poteva. Mandava qualcun altro a prendere il cibo durante l’intervallo. Stava in porta a calcio perché ne occupava la metà.
Quel giorno però capii che ero pigro solo per le cose facili. Se davanti avevo una sfida — anche fisicamente complicata — ma irripetibile, qualcosa che poteva succedere solo lì e solo allora, non la vivevo come una fatica, ma come un’occasione. Un modo per mettermi alla prova. Per dimostrare a me stesso chi ero. E lì la pigrizia non c’entrava nulla.
Presi la salita.
Dopo dodici metri stavo già ansimando. Però ricordo un video in cui, per quasi tutta la camminata, continuavo a citare Il Signore degli Anelli. Ovviamente senza fare colpo su nessuna ragazza della mia classe.
Arrivammo in cima. Io e un manipolo di eroi. Mi faceva male il cuore, sentivo il sapore del sangue in bocca. Sedermi su una roccia innevata era l’unica cosa che desideravo. Ma da lassù vedevo anche l’unica cosa che contava davvero: la prospettiva.
Non quella tecnica — quella la odio. La prospettiva di ciò che posso fare, se accetto di mettermi alla prova.
Se per salire ci mettemmo mezz’ora, per scendere io ci misi più di due ore. La scusa ufficiale era che mi piaceva il paesaggio. La verità è che dovevo riprendermi. Quella è stata la mia montagna.
di Daniele “Il Rinoceronte” Daccò




