In lutto per il tempo mancato

Devo andare, che si fredda.
È così che, alzandomi da tavola, dico ai miei amici che devo arrivare in tempo al funerale di mio nonno. È il mio modo — storto — di affrontare la morte. Ne rido: forse perché, sotto sotto, mi spaventa più di qualsiasi altra cosa.

Ho sempre pensato che la risorsa più preziosa che abbiamo sia il tempo. Mi irrito perfino quando perdo minuti cercando parcheggio, come se qualcuno mi stesse sottraendo una manciata di vita. E così, da un po’, sto imparando a centellinare tutto: energie, momenti, persino le distrazioni. Provo a dare un senso a ogni attimo, anche solo per convincermi di non starlo sprecando.

Il lutto, per me, non è soltanto la scomparsa di una persona cara o la tristezza che inevitabilmente porta con sé. È il pensiero — quello sì che fa male — che quella persona abbia esaurito ciò che davvero conta: il proprio tempo.

Ne Gli Spietati di Clint Eastwood c’è una scena che mi colpisce sempre, e che, senza volerlo, finisce per intrecciarsi con tutto questo. È la morte del villain, il compianto Gene Hackman. Quello che mi trascina in un limbo emotivo non è il colpo di pistola (o era di fucile?), ma le sue ultime parole, dette con la testardaggine di chi vuole restare aggrappato alla vita: “Io sto costruendo una casa”.
Come se non potesse morire. Come se la morte dovesse bussare, aspettare, magari tornare più tardi perché lui ha ancora due lavoretti in sospeso.

E invece no. In quell’istante, capiamo che ciò che lo terrorizza non è la fine in sé, ma tutto ciò che non farà più in tempo a concludere. La sua casa resta lì, incompleta: una metafora spietata come il titolo, e forse la più sincera, di ciò che siamo quando il tempo ci sfugge di mano. Per questo io vado in lutto, per il tempo mancato.

di Daniele “Il Rinoceronte” Daccò

Daniele Dacco
Daniele Dacco
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