Nonostante io sia degli anni ’90, ho una caratteristica in comune coi Baby Boomer: il “Buongiornissimo Caffè”.
No, non entro nei gruppi Whatsapp di famiglia tempestando i miei parenti con immagini generate dall’IA di Minnie e Paperina che fanno colazione, con le catchphrase glitterate, accuratamente fatte apposta per ogni giorno della settimana, da mandare appena scocca l’ora del cartellino accompagnate dalla scritta “Inoltrato troppe volte”. Possa un fulmine cadermi in testa, preferisco un meme al giorno. O un video di gattini o di capre che urlano, piuttosto. Non sono ancora messa così male.
Parlo proprio del primo caffè del mattino, solitamente preso al bar dell’ospedale appena ci metto piede: il classico cappuccino d’asporto da sfoggiare sulla scrivania appena seduti, col suo coperchio take-away. Lo sorseggi e in qualche modo trovi il tuo posto nel mondo, o perlomeno in ufficio.
Ma non è sempre stato così.
Ho odiato per molto tempo il sapore del caffè. Amaro come pochi. Riesce a esserlo anche con due bustine di zucchero di canna, anche dopo un litro di latte a tentare di smorzarne il sapore acido che riuscirebbe a corrodere il più sano degli esofagi, con quel retrogusto tostato che spesso si traduce in bruciato nelle macchinette dei peggiori bar di Caracas.
Quattro cucchiai di liquido nero denso e cremoso, che però ha l’ardire di darti la spinta per arrivare a mezzogiorno nel migliore dei casi. O più probabilmente a metà mattinata. O forse solo al bagno…
Parlo da profana, metto le mani avanti prima che insorgano gli amanti del caffè: purtroppo amo i sapori dolci. Sono quella che, quando entra in un bar, sfida il barman di turno a fare il cocktail più vomitevolmente dolce per poter bere qualcosa. Siete autorizzati a mandare i vostri reclami alla redazione, faccio il mea culpa anticipato.
Come sono finita a berlo tutte le mattine?
A sentirne il bisogno anche per cinque o sei volte al giorno?
All’inizio della mia carriera lavorativa, ogni volta che entravo in un ufficio nuovo, non riuscivo ad integrarmi facilmente. Non è che fossi schiva, magari riuscivo anche ad attaccare bottone nella relazione uno-a-uno, ma nelle situazioni con più persone, dove il microfono della conversazione tende a girare su più fronti, per me era difficile inserirmi e mettermi sul palco. Mi sembrava sempre di non essere all’altezza, di smorzare il tono del discorso, era più semplice ascoltare e rimanere il silenzio.
E quando a metà mattina arrivava l’agognata pausa, io non fumando né bevendo caffè, finivo spesso per entrare a far parte di un solo gruppo molto esclusivo: l’arredamento. Ferma e in silenzio come un comodino, a disagio nel fissare gli altri che bevono tanto da evitare di spostarmi dalla scrivania, così che almeno potevo dire di star “reggendo il fortino per gli altri”. Stacanovista? No, solo un po’ intimidita.
Non ricordo esattamente quando mi decisi che quel dannato liquido nero doveva per forza iniziare a piacermi. Mi ricordo solo che a un certo punto, con in mano un bicchiere dietro il quale ogni tanto potevo nascondermi…
…è diventato tutto molto più facile.
Chiacchierare, ridere, prendere parola, liberarsi.
Avevo il mio scudo, il mio motivo per essere in piedi assieme agli altri a godermi quei quindici minuti di libertà dal lavoro, in compagnia dei colleghi, senza che la mia testa mi facesse sentire giudicata per l’ennesimo comportamento anticonvenzionale.
Da lì, il passo più difficile da affrontare per apprezzare il caffè era superato. Alla fin fine, un po’ di carica te la dava comunque. E con un po’ di latte e zucchero non era poi così male da sopportare, si lasciava bere. Senza contare che, quando invitavi a casa qualcuno, potevi offrire quella magica bevanda che metteva tutti quanti d’accordo, e potevi aggiungerti al rituale della bevuta senza dire “Io no, grazie” ma un più sociale “Tu con uno o due zollette?”.
Ecco, per me il caffè è stato come la sigaretta da adolescenti: la provi e fa schifo, tanto che ci perdi pure un polmone alla prima boccata, però fa figo; quindi, devi adeguarti per far parte del branco. L’animale sociale che trova la sua giustificazione per farsi del male un tot di volte al giorno. Ed eccomi qui, dipendente da caffeina senza rendermene conto, solo per qualche interazione in più per rendere le giornate meno pesanti, più conviviali. Più sopportabili.
Fortunatamente però il caffè non fa poi così male. Leggevo che, in base al peso e alla tolleranza personale alla caffeina, un uomo o una donna in media possono bere quattro o cinque tazzine di espresso al giorno senza troppi effetti collaterali. Io bene o male non le supero queste quantità, dai.
Poi non è che io soffra di ansia o di insonnia. Noooo. Solo un pochino, insomma, niente di eclatante.
…Buongiornissimo, caffè?
di Giulia P.




