Un certo tenore di vita – Ricordi nello Spazio

La vita sulla Terra arriva al capolinea, il genere umano si divide in spedizioni interstellari alla ricerca di altri pianeti abitabili e ti ritrovi con le ore contate su una navicella in avaria. L’unica cosa che ti rimane a cui aggrapparti per non impazzire sono i ricordi della tua vita passata. Questo è il concetto alla base della rinomata produzione de La Bohème del teatro dell’Opéra de Paris, ideata dal regista Claus Guth, alla quale ho avuto la fortuna e il piacere di lavorare.

La Forza dell’Opera

Così come accade coi poteri della Forza nel mondo di Star Wars, il teatro dell’Opera vive un’eterna lotta interna tra bene e male, il lato chiaro e il lato oscuro che combattono in battaglie all’ultimo sangue, alla ricerca di chi un giorno riuscirà a portare equilibrio nell’Universo. Due potentissime fazioni si scontrano a colpi di scenografie e costumi per decidere chi avrà la meglio sull’altra.

Dal lato chiaro dell’Opera i puristi, impavidi paladini della tradizione. Per loro niente c’è di più sacro delle pagine ingiallite dei piccoli libretti e dei sontuosi spartiti manoscritti, dove la minima virgola è legge, non importa se quell’accento è invece un taglio, o se quelle note indecifrabili sono in realtà macchioline di caffè: l’unico modo per rendere giustizia ai capolavori operistici è riproporli esattamente nella loro forma originale lasciandola inviolata. Che non ci si azzardi a modificare struttura, parole, luoghi, costumi, note, epoche e scene!

Il lato oscuro mostra invece la sua essenza più sovversiva. In un mondo in cui tutto è già stato creato ed esplorato, l’unica strada è demolire e ricostruire da capo. Per loro l’Opera è antica, troppo statica, troppo musicale, troppo emozionale, troppo teatrale, troppo operistica. L’unica strada possibile è mettere in scena musica e parole sotto luci totalmente diverse, che vadano il più possibile in contrasto con quello che già troppe volte è stato sempre rappresentato in modi troppo uguali fra loro. Se è strano, se è diverso, se fa storcere il naso e fa parlare di sé: questo è il nuovo Teatro.

Il caso de La Bohème di cui sopra è un esempio lampante di questa guerra da palcoscenico.

La Bohème di Giacomo Puccini

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Con libretto (quello che i personaggi dicono in scena) e storia tratti dal romanzo Scene della vita di Bohème di Henri Murger, ci racconta le peripezie di quattro giovinastri screanzati perdigiorno nella Parigi degli anni ’40 dell’Ottocento. Vivono di espedienti e piccoli lavori saltuari, stando attenti a sperperare per locali e mercatini natalizi fino all’ultimo spicciolo racimolato.

Battute e sfottò si srotolano a valanga per tutta la prima parte dello spettacolo, lasciando di tanto in tanto spazio a slanci romantici e scene di gelosia, il tutto permeato da una irrefrenabile atmosfera natalizia. Episodi esilaranti e momenti di vero e proprio caos si alternano tra le strade del Quartiere Latino, bambini monelli scappano dai genitori, si vende cibo e si ordina birra, libri usati, strumenti musicali scassati. Giocattolai urlano per le strade, affittuari fedifraghi vengono ingannati col vino, si cade dalle scale, muoiono pappagalli e alla fine il vecchio Lulù paga il conto a tutti… impossibile per il pubblico annoiarsi.

La trama si sofferma in particolare sulla storia di due amanti: Rodolfo, poeta e sognatore, vive una storia d’amore con Mimì, conosciuta in una soffitta, che soffre però di tubercolosi. Una vita di povertà e stenti li porta a lasciarsi per il bene comune, fino a quando non si ritrovano per l’ultima volta negli ultimi istanti di vita della fanciulla, che va a morire tra le braccia del suo amato che mai aveva dimenticato.

Perfetta per i neofiti dell’Opera, La Bohème riesce a coinvolgere ed emozionare chiunque vi assista per la prima volta. Tra risate fragorose e lacrime copiose la gamma emotiva è tra le più complete e intense che il Teatro abbia da offrire, consigliata e adatta a tutti.

Quello che accade invece a Parigi nel 2017, proprio nella città ridente, romantica e frenetica che ospita le storie dei nostri giovani protagonisti, sovvertirà le regole di questo gioco.

Parigi, 2017

L’Opéra de Paris (proprio dove si nasconde lo spaventosissimo fantasma) mette in mano al regista Claus Guth una produzione tutta nuova dell’opera pucciniana. Mi metto allora nei panni di chi con emozione e curiosità è andato alla prima rappresentazione dello spettacolo, aspettandosi di divertirsi e soffrire con le note di quelle meravigliose melodie, chiedendosi come gli artisti in scena hanno saputo rinnovare quella storia splendida e immortale. Come sempre, ci si aspetta le prime poche frenetiche note di introduzione, che faranno aprire il sipario sui comignoli grigi dei tetti di Parigi. Invece…

parigi

Il sipario si apre sul silenzio. Ci accorgiamo che al posto dell’orchestra nelle nostre orecchie c’è un costante brusio meccanico a bassa frequenza. Un fermoimmagine spettacolare quanto fuori contesto ci si para imponente davanti: dentro una navicella spaziale, dai colori bianchi e linee marcate, un uomo sta trafficando con dei cavi, mentre un altro ci dà le spalle affacciato a una finestra gigantesca mentre osserva la curva di un pianeta in lontananza. I due prendono vita. Quello che poi capiremo essere Rodolfo si avvicina a un tablet e inizia a buttare giù annotazioni su un diario di bordo, che scorrono per il pubblico nei sovratitoli. Capiamo allora di trovarci in un futuro fantascientifico, su una navicella spaziale in missione alla ricerca di nuovi pianeti abitabili. La nave è in avaria, le riserve di cibo e ossigeno scarseggiano, gli astronauti presenti a bordo hanno le ore contate. La missione è fallita.

Solo allora, dopo che Marcello riattiva la corrente del mezzo spaziale, udiamo dalla buca d’orchestra le tanto attese quattro note del tema principale. Tutto può sembrare, tranne che la nostra amata Bohème.

La “non-Bohème”

Piccolo prevedibile spoiler: le prime recite del nuovo spettacolo sono state oggetto di impietosi fischi e critiche crudeli. Ciò che è diverso da quello che ci si aspetta riesce sempre a spaventare e a lasciare contrariati. È innegabile che ambientazione e ritmo dell’allestimento mettano in discussione tutti gli elementi più caratteristici dell’opera, dall’ironia alla frenesia, dagli scorci pittoreschi parigini alla frivolezza bohèmien dei protagonisti. Tutto questo nonostante musica e libretto siano ovviamente rimasti immutati.

Non nascondo che io stesso sono sempre rimasto scettico sull’operazione: i trailer dello spettacolo visti online, per quanto trasparisse una cura fotografica e scenografica degna di un film d’autore, mi avevano sempre lasciato con tanti pregiudizi, dubbi e punti di domanda.

Ho avuto invece l’opportunità di dare una mano alle prove per la ripresa di quest’anno dello stesso spettacolo, e ho dovuto per forza di cose imparare a memoria tutta la regia e approfondire il concetto alla base della messinscena.

In questo allestimento da 2001: Odissea nello spazio è come se i quattro ragazzi protagonisti avessero già vissuto quasi tutte le vicende che siamo abituati a rivivere da spettatori con La Bohème. Si dà il caso infatti che i giovani, questa volta astronauti su una navicella in avaria, acquistino poco a poco consapevolezza della loro fine imminente. La debolezza e la disperazione si fanno strada, e con loro i ricordi della vita passata sulla Terra diventano vere e proprie…

…allucinazioni.

È il caso dell’arrivo di Mimì, questa volta figura eterea quasi inesistente, solo il primo dei tanti fantasmi nella testa del nostro Rodolfo, che nulla può fare per scacciare dalla testa i suoi ricordi d’amore, gli unici che alla fine contano davvero.

Inizia quindi a mostrarsi allo spettatore un susseguirsi sempre più delirante e allucinogeno di immagini e momenti più o meno collegati fra loro, in cui gli astronauti hanno visioni della versione di loro stessi sulla Terra che litigano e scherzano, a ricordargli una vita diversa, migliore, ormai perduta per sempre.

Nelle ultime scene della storia, gli astronauti camminano a rallentatore su di una luna sperduta, mentre da una tenda degna della Loggia Nera di David Lynch visioni del passato sempre più sconnesse fanno capolino cantando duetti con microfoni giganti. Uno alla volta i protagonisti si spengono in preda alla disperazione e alla carenza di ossigeno, finché negli ultimi istanti Rodolfo insegue la visione di Mimì per l’ultima volta, prima di esalare l’ultimo respiro.

La Bohème diventa così un dramma fantascientifico, psicologico e claustrofobico, dove l’angoscia fa da padrona dal primo all’ultimo istante. Tutto è legato ai ricordi, all’unica cosa a cui ci si può aggrappare quando il resto è perduto, i piccoli pezzi che compongono la nostra storia e quello che diventiamo col passare del tempo.

La cuffietta rosa

Ma tutto sommato non è niente di diverso da quanto di norma succede a Rodolfo nel quarto atto, che si aggrappa alla cuffietta rosa di Mimì e al suo ricordo mentre non riesce più a scrivere mezza parola del suo articolo. E la stessa Mimì, quando stringe anche lei la cuffietta rosa sul proprio letto di morte, rivive il momento in cui con Rodolfo giocavano a perdere la chiave di una stanza e a non riuscire ad accendere una candela. Entrambi rivivono i propri ricordi più cari, poco prima che tutto finisca.

Claus Guth non ha fatto altro che portare questo piccolo grande elemento allo spettacolo intero, allargando il tutto a un livello più ampio, dove Parigi è l’Universo, la fine di una storia d’amore è la fine di tutte le cose e la cuffietta rosa è una vita intera, ormai lontana e irraggiungibile.

bohème

C’è chi definirebbe questa operazione un vero e proprio tradimento nei confronti dell’opera di Puccini, e potrebbe non essere del tutto sbagliato pensarla in questo modo. Mi chiedo però se sia effettivamente un errore cambiare così drasticamente chiave di lettura, ottenendo comunque un risultato di indiscutibile valore artistico. Sarebbe giusto mettere limiti all’espressione artistica? Non a caso, soprattutto quando nel 2023 questa produzione è stata riproposta dal teatro, un pubblico mediamente più giovane ha apprezzato e lodato l’iniziativa, sentendola più vicina a un linguaggio più moderno e cinematografico.

Il pregiudizio

Ora che anche io sono pieno di dubbi, ma anche di piacevoli sorprese e spunti di riflessione, non vedo proprio una fine all’annosa diatriba fra tradizione e innovazione.

Forse è proprio nella natura delle cose dell’uomo, che ci si divida sempre in fazioni e tifoserie, per sentirsi magari più completi appartenendo a qualcosa, che sia un’opinione o una bandiera…

Se vi capita di fare un salto a Parigi, vi consiglio di dare una chance a questo interessantissimo allestimento, e in generale di non farvi mai condizionare da un pregiudizio sbagliato: potreste perdervi delle bellissime esperienze e dei potenziali ricordi a cui aggrapparvi.

di Matteo Desole

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