C’è un momento, in Shadow of the Colossus, che non riuscirò a dimenticare mai. Dopo un’introduzione mozzafiato, iniziata una nuova partita è impossibile non percepire che stai per trovarti di fronte a qualcosa di irripetibile. Quel corpo immobile, adagiato sull’altare di pietra. Il vento che entra dal tetto spezzato. Wander che grazie alla sua spada gli è concesso di parlare con gli dei. Come se potesse realmente contrattare con loro.
Già da allora il gioco ti mette davanti a una promessa impossibile: riportare in vita ciò che è già perduto.
Ma Shadow of the Colossus fa qualcosa di più. Ti fa vivere il lutto.
Quando il videogioco ti fa vivere il lutto
Attraverso quel viaggio silenzioso, quella solitudine, quella continua sensazione di vuoto, impari cosa significa davvero perdere qualcosa. Come nonostante tutti gli sforzi che farai, arriverà inevitabilmente il momento in cui senti tutto scivolarti dalle mani.
Quando ho finito il gioco, ricordo di aver spento la PS2 ed essermi detto: “E adesso?”. Era una delle esperienze più intense mai vissute fino a quel momento, e dentro di me si era già piantato un seme: la convinzione di poter salvare tutto. Fino a quel giorno avevo vissuto ogni gioco allo stesso modo, senza pensare che potesse darmi certi spunti di riflessione.
Non lo sapevo ancora, ma quell’assenza che sentivo davanti allo schermo era la stessa che avrei provato ogni volta che qualcosa nella mia vita finiva. E come Wander, spesso, ho fatto di tutto per non accettarlo.
La negazione che ci logora
Il viaggio di Wander non è altro che la proiezione di quella negazione del lutto che tutti, in qualche modo, almeno una volta nella vita, proviamo: il desiderio di invertire il tempo, di fare scelte diverse e cercare la soluzione per sbrogliare matasse che sono decisamente più grandi di noi.
Ma più si procede, più il gesto eroico diventa sterile. E forse di eroico c’è ben poco. C’è tanto egoismo. Perché negare il lutto, voler riportare indietro chi o cosa abbiamo perso, non è mai davvero per loro. È per noi, per non dover affrontare quel buco che resta.
Non sono mai stato bravo a lasciare andare le cose.
Ogni “fine” mi sembrava un fallimento personale, qualcosa che avrei potuto evitare se solo avessi fatto di più, detto le parole giuste, trovato il momento giusto. Per molto tempo ho finito per logorarmi proprio come Wander, cercando di riparare ciò che era già finito: amicizie, relazioni, lavori. Convinto che bastasse un altro tentativo, un’altra conversazione, un altro sforzo.
Come se la forza di volontà potesse invertire il destino.
Quando finalmente lasci andare
E quando infine ho imparato a lasciarli andare, ho ritrovato la stessa sensazione che avevo provato davanti alla TV di camera mia: il silenzio che segue la fine, ma anche la quiete che ne deriva. Quel respiro lungo dopo aver trattenuto il fiato troppo a lungo.
Ad anni di distanza, non posso fare a meno di rivedermi in Wander.
Nel suo ostinarsi a voler cambiare il destino, nel suo camminare stanco ma deciso verso qualcosa che crede di poter salvare. Ma a quale prezzo?
Col tempo ho capito che Shadow of the Colossus non parla solo di perdita. Parla di equilibrio. Di quando smetti di credere di poter “salvare tutto” e inizi a capire che la vera forza sta nel lasciare che le cose finiscano. Che a volte la fine non è un fallimento, è solo la fine.
Forse per questo il silenzio del gioco è così potente: perché ti insegna che non tutto ciò che muore va riportato indietro. A volte bisogna solo ascoltare quella mancanza, sedersi accanto a lei, finché non smette di ossessionarti.
E poi, solo allora, puoi davvero andare avanti.
di Nicola Marino




