Scheletri nell’armadio

È sera. È tardi. In casa c’è silenzio, se non si conta quella vecchia asciugatrice che continua ad andare per ore, nonostante il programma di asciugatura ti abbia più volte illuso del fatto che basti solo un’ora e mezza per ultimare la macchinata di vestiti che hai messo da lavare nel pomeriggio.

Il bambino dorme.

Ogni mese che passa si fa più grande, più testardo e adolescente, nonostante la sua veneranda età di nove anni. Fa sempre più fatica a mettersi a letto ad un orario consono, quello stesso orario che ti permetteva di avere un po’ di autonomia dopo lo scoccare delle nove di sera.

Sai che in parte è anche colpa tua, perché tutto ciò che è appetibile per la sua infantile curiosità accade dopo che si spegne la luce in cameretta. E allora passa per un ultimo abbraccio, ti chiede di riempire la bottiglietta d’acqua per la notte, di chiudere la finestra perché ha sentito un rumore, mentre butta l’occhio sul tuo computer acceso, cercando di capire come mai la mamma sta davanti a un foglio bianco da quando ha finito la cena.

Insomma, l’andirivieni è finito, ma non ancora sei riuscita a mettere insieme qualche parola anche questo mese. Rimani a fissare il soffitto, chiedendoti che fine faccia tutta la tua creatività a quell’ora, quando invece di notte ti tiene sveglia a immaginare mondi illusori e film da premio Oscar assicurato.

Mindfulness

Sono i momenti in cui finisci per rimanere da sola con te stessa, un po’ più consapevole di quello che ti capita nella testa.

Qualcuno direbbe quella fantastica parola che ora va tanto di moda: “mindfulness”. Mi viene sempre da ridere perché mi ricorda tantissimo lo sketch di un comico che diceva che solo oggi ha senso parlare di mindfulness, in un’epoca in cui i ragazzini non hanno un minimo di tempo per rimanere soli con sé stessi, sempre bombardati dall’ultimo post, TikTok o reel.

Quando i social non esistevano e non avevamo nemmeno un lettore mp3 per ascoltare “In the end” dei Linkin Park con le cuffiette, la nostra mindfulness era la vita normale. Era aspettare l’autobus per tornare a casa da scuola, stare sul water a leggere le indicazioni dell’ammoniaca, aspettare che tua madre finisse l’interminabile giro degli scaffali del supermercato o che finisse la pubblicità tra il primo e il secondo tempo del film di prima serata. Mindfulness.
Ovviamente il video del comico l’ho visto su Instagram. Non giudicatemi.

Scheletri nell’armadio dell’inconscio

In questi momenti il catrame che ho nella testa risale vomitandosi nell’anticamera del cervello per mettere disordine.

Sono pensieri vacui, che riportano a galla sensazioni spiacevoli, imbarazzi o rimorsi, frasi dette e che non volevamo dire o, al contrario, che non abbiamo detto ma cavolo se erano proprio azzeccate, se solo ci avessi pensato prima. Segreti che abbiamo persino con noi stessi, convinti di poterli tenere nascosti sotto chili e chili di altri ricordi o esperienze più superficiali.

Subdolamente, escono allo scoperto come in un film dell’orrore, scricchiolano e scivolano fuori come scheletri nell’armadio dell’inconscio dove li avevi voluti dimenticare. Ti afferrano alle spalle con le loro mani ossute e gli occhi vuoti, solo per affermare ancora la loro presenza, la loro esistenza nel tuo mondo d’ansia, mentre stavi soltanto cercando di mettere insieme qualcosa da condividere.

E allora scrivi.

Scrivi come solo Hamilton nell’occhio dell’uragano sa fare.

E condividi di quella volta, alle elementari, quel bambino a cui avevi solo regalato un quadernetto con sopra disegnati degli squali ti viene a chiedere se volessi essere la sua fidanzatina. Tu che all’epoca nemmeno ti eri chiesta che caspita volesse dire essere una fidanzata, accetti perché comunque ti senti lusingata dal pensiero. In fondo, se gli avevi regalato quel quaderno è perché ti stava pure simpatico.

Soltanto per poi affrontare l’umiliazione di sentirlo tornare da te dopo qualche ora a dirti che in realtà non potevate stare assieme perché ai suoi amici “facevi schifo”. E ci rimani come un gatto in autostrada quando all’inizio di quella giornata nemmeno te l’aspettavi. Alla fin fine, volevi solo fare un regalo a un compagno di classe.

Di adolescenza e staccionate

Oppure condividi quella volta, alla casa in montagna, in vacanza nella pausa estiva, in cui eri così arrabbiata col mondo intero, perché la tua adolescenza stava picchiando duro e i tentativi di ribellione alle regole erano all’ordine del giorno.

Ricordi vagamente il motivo per cui ti eri scontrata con le autoritarie e categoriche richieste dei tuoi nonni o dei tuoi genitori, ma ricordi benissimo di essere uscita di casa con i nervi a fior di pelle ed aver trovato sulla tua strada una vecchia staccionata che delimitava la strada che passava accanto al quartiere dove vivevi.

E lì hai sfogato la tua frustrazione, a calci ripetuti contro del povero legno consunto dal tempo. Almeno finché questo non è crollato sulla strada, ricordandoti che forse non era buona norma prendersela con oggetti inanimati di proprietà del comune. Non che qualcuno se ne sia davvero fatto un problema perché, dopo quindici anni, la staccionata sta ancora là distrutta, a monito perpetuo di quello che solo tu sai di aver fatto.

Cosa significa morire

O condividi della volta che hai capito davvero cosa significasse morire.

Non quando eri troppo piccola e hai perso il tuo caro nonno con il quale giocavi e ridevi, compianto da tutta la famiglia ma che purtroppo era anche qualche mese che non vedevi perché non stava bene, per il quale hai sicuramente pianto e ancora ne senti la mancanza, ma che in qualche modo hai imparato ad accettare.

Non a tutti i funerali al quale hai partecipato nella tua esistenza, di parenti lontani o similari che però non avevano mai avuto un grande impatto nella tua vita.

Lo hai capito quando hai toccato le mani fredde e gelide di un tuo collega di circa 35 anni, strappato alla famiglia da un male improvviso e assolutamente non prevedibile, con il quale fino a qualche giorno prima stavi festeggiando i traguardi lavorativi. Eri alla camera mortuaria con altri tuoi colleghi, per l’ultimo saluto, e ti si è fermato il respiro. Sei scoppiata in un pianto così prepotente che la tua collega ha dovuto trascinarti fuori dalla stanza perché stavi dando uno spettacolo indecente davanti ai parenti.

E senti ancora la vergogna di quell’angoscia sulla pelle come se il freddo delle sue mani ti stesse ancora sfiorando la spalla.

I brividi si arrestano.

La pagina è completa.
Senti gli scheletri scricchiolare dietro le tue spalle e rientrare mogi nell’armadio.
Tu ti alzi e chiudi l’anta. Respiri.

A volte condividere è meglio che dimenticare.
Anche solo per avere meno sguardi vuoti che ti fissano da dietro le spalle mentre torni a camminare.

di Giulia P.

Redazione
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