Cosa resta quando finisce tutto?
In Occidente, lo scheletro è ciò che si nasconde. Sta nell’armadio, nel sotterraneo, nei racconti scomodi delle cene di Natale. È simbolo di vergogna, colpa, tabù: ciò che non si può mostrare. È ciò che è morto, ma non abbastanza da tacere.
In molte culture asiatiche, invece, le ossa parlano ancora. Sono veicolo dello spirito, sede della memoria. Non si nascondono, si ascoltano. Non si cancellano, si pacificano. È nei racconti cinesi di spiriti affamati, nelle leggende giapponesi dove l’anima si lega a un osso dimenticato, nei K-drama in cui il passato bussa sempre alla porta – anche quando non c’è più nessuno in casa.
Scheletro, allora, non è solo ciò che resta. È ciò che attende.
La Donna delle Ossa
In 西遊記 (Xī Yóu Jì), il Viaggio in Occidente, uno dei demoni più inquietanti è Bái Gǔ Jīng, una donna scheletro: priva di carne, assume l’aspetto di una giovane donna per ingannare il monaco Xuanzang. Ma Sun Wukong, che vede oltre l’illusione, la riconosce e la colpisce. Tre volte lei cambia forma, tre volte lui la smaschera. Il monaco però, illuso dalla bellezza, crede che lo Scimmiotto stia agendo con crudeltà.
Quante volte ci siamo comportati come il monaco? Abbiamo difeso qualcosa che sembrava vivo, desiderabile, giusto, ma che era solo una bella maschera sopra delle ossa fredde? La nostalgia, a volte, è un demone con la pelle nuova.
E se non hai uno sguardo abbastanza netto – come quello del Re Scimmia – finisci per proteggere proprio ciò che ti vuole divorare.
Scheletri che aspettano
Nel K-drama Goblin, il protagonista è immortale, con una spada invisibile nel petto. Può vivere secoli, ma non può liberarsi finché qualcuno non gliela rimuove. Vive, ama, respira – ma con un’arma conficcata nel cuore. Quante cose nella nostra vita funzionano così?
Relazioni finite che ci abitano ancora, sogni lasciati a metà che ci giudicano in silenzio, parole non dette che si sono fatte ossa.
Resta tutto lì: impiantato dentro. Non sanguina, ma se tocchi fa male.
Il peso delle scelte incompiute
In Death Parade, un anime sulle anime – inserire risata –, gli spiriti dei defunti vengono condotti in un bar. Lì non si brinda: si viene giudicati.
Due persone alla volta, senza sapere di essere morte, si ritrovano a giocare a freccette, a bowling, a biliardo – giochi che rivelano chi erano davvero, sotto la superficie.
Nessuno dei due sa perché è lì. Ma presto emergono ricordi.
Scelte fatte. Parole non dette.
Scheletri emotivi che riemergono in mezzo a un gioco, come in una veglia postuma.
Il vero giudizio non viene da un dio, ma dalle ossa stesse della coscienza.
Perché a volte ciò che ci condanna non è ciò che abbiamo fatto, ma ciò che non siamo mai riusciti a confessare.
E anche da morti, restiamo lì a giocarci l’anima, pezzo per pezzo, fino a che non capiamo chi eravamo davvero.
Cosa fare con tutto questo?
Coprire? Abbandonare? Bruciare? La cultura occidentale tende a seppellire, nascondere, chiudere a chiave, cambiare città, cambiare pelle.
Quella orientale, spesso, preferisce pacificare, fare spazio, salutare, lasciare che le ossa diventino memoria.
Forse non dobbiamo scegliere.
Forse dobbiamo solo avere il coraggio di guardare negli occhi ciò che resta, anche quando ci spaventa. Anche quando porta il nostro stesso nome.
Spesso mi chiedo
Quali scheletri porto dentro di me anche se dico che è tutto finito? Ho lasciato andare davvero o il rancore mi consumerà un giorno così forte da farmi prendere fuoco? C’è qualcosa che ho lasciato andare solo a parole? C’è un nome che evito di dire per paura che ritorni?
È giusto seppellire?
È giusto bruciare tutto?
O forse… Qualcosa merita di essere ricordato proprio perché ci ha spezzato?
Io non ho ancora trovato una risposta, non una che rimanga tale troppo a lungo senza far sorgere nuovi dubbi, nuove domande, che restano lì, in piedi, come scheletri.
di Alessandra “Furibionda” Zanetti