Sto scrivendo questo articolo prima di partire per gli ultimi tour di quest’anno, prima Giappone e poi Cina. Tornerò a ridosso della consegna e non so mai quanto sarò stravolta, perciò provo a portarmi avanti, come altre volte ho fatto. La tematica di questo mese è il lutto, come evincerete dall’editoriale e gli altri articoli.
Ora, io non mi esprimo mai in maniera eccessivamente personale qui, faccio parallelismi e divulgazione – se vogliamo chiamarla così – di culture altre, un confronto tra Oriente e Occidente, una resa dei conti, qualche volta, con esempi pop e tradizionali. Perché penso che l’editoriale è personale e gli altri articoli debbano essere più “indicizzati”, lo pensa la nostra caporedattrice, lo pensiamo un po’ tutti insomma. E così deve essere.
Però.
Questa volta mi trovo in una posizione troppo scomoda e troppo “personale”, appunto, per raccontare solo di cosa sia in Oriente e Occidente. Perché che lo si prenda da un capo o dall’altro del mondo, davanti a lei, davanti a Sua Maestà Morte, si è pressoché tutti uguali.
Si può reagire diversamente, si può immaginare di affrontarla in modi diversi, ma gli ultimi attimi – posso solo immaginare, appunto – sono molto simili per tutti.
In un momento storico
Dove è tutto sovraesposto, dove ci troviamo ad avere miriadi di informazioni, in cui sappiamo quanta gente non sopravvive a guerre, massacri e genocidi, anche la sensibilità diventa diversa.
Quella che doveva essere una sensibilizzazione diventa abitudine.
Quella che doveva diventare una Terra migliore diventa teatro di negazionisti.
Quella che doveva essere una missione umanitaria diventa “screditare un governo“.
Siamo agli antipodi dell’umanità.
Lo siamo perché da un lato c’è una fetta enorme di… vabbe’, scriviamo “persone”, che non si rendono conto delle cose, che negano l’evidenza, che amano essere manipolati perché è molto più semplice farsi imbeccare un’opinione che informarsi tramite qualcosa che non sia solo Rete 4 e Facebook (che è l’equivalente di Rete 4 ma su internet); dall’altro c’è un’altra fetta di persone che si stanno rendendo conto che il mondo non è più diviso da ideologie ma deve avere un obiettivo comune.
La sopravvivenza.
Siamo a questo: ambiente, salute, educazione.

Siamo messi male, dappertutto.
A quelli che dicono: “Allora vattene dall’Italia se ti fa così schifo”, rispondo: “E dove vado?”.
Non è che il resto del mondo sia una primavera di giustizia e libertà, certo l’Italia ha collezionato proprio l’album Panini intero di figure di emme, però non mi sento di dire che si stia male. Per fortuna, aggiungerei.
Ma non stare male in un posto non vuol dire farsi andare bene ogni cosa.
Ci sono cose che non torneranno. E non parlo solo di chi ci ha lasciato fisicamente, ma delle idee a cui siamo rimasti aggrappati per troppo tempo, anche quando avevano smesso di avere carne e senso. Il lutto, quello vero, non è solo quello per i corpi. È per tutto ciò che è morto ma che continuiamo a trattare come se fosse ancora vivo, forse per comodità, forse per paura, forse perché non sappiamo bene da dove cominciare a salutare.
Eppure arriva un momento – magari proprio mentre stai cercando di capire cosa mettere in valigia o cosa scrivere in questo articolo – in cui capisci che non puoi più far finta di niente.
Devi alzarti.
Non puoi aspettare che le cose si sistemino da sole, o che sia qualcun altro a decidere quando è il momento di cambiare.
Un tempo c’era una certa fiducia – magari ingenua, ma resistente – che chi governava lo facesse con una visione d’insieme, con una logica più grande della nostra. Una cosa quasi confuciana: non capire le scelte, ma accettare che siano fatte per il bene collettivo.
Adesso è chiaro che non c’è nessuna strategia illuminata, solo una guerra costante a chi alza di più la voce e l’ego.
E allora no. Non ci si può più permettere il lusso di rimanere spettatori. Per questo, ho deciso che il lutto, almeno per me, non sarà più solo un atto di dolore silenzioso, ma anche un gesto di selezione consapevole. Lascio andare ciò che non ha più senso, le idee stanche, le autorità senza autorevolezza, i riferimenti affettivi che parlano con la voce dell’abitudine. Non c’è più tempo per tenere in vita ciò che è morto.
Non è cinismo, è amore: amore per quello che può ancora nascere, se solo facciamo spazio.
di Alessandra “Furibionda” Zanetti




