Ovvero, quando la storia di un lutto crea una colonna sonora prima di un videogioco.
È fine ottobre del 2013 e Steven Wilson, cantautore e frontman del gruppo Progressive Rock Porcupine Tree, pubblica il singolo di lancio del suo disco solista “The Raven that refused to sing”: Drive Home. Il brano è una cavalcata struggente, che amplifica il tema dell’album, legato al lutto e a chi sopravvive quando una persona importante viene a mancare: un grido soffocato e intriso di malinconia come solo le più belle ballad rock sanno essere.
Massimo Guarini e Gianni Ricciardi, l’anno precedente, avevano fondato Ovosonico (oggi Avantgarden), indie game house tutta italiana con la quale, nel ruolo rispettivamente di Direttore e Lead Sound Designer, nel 2014 partoriscono quella perla di gameplay fuori dagli schemi che è stata Murasaki Baby, forse il titolo più interessante pubblicato sulla tanto innovativa quanto sfortunata PSVita: una notte di paure, incubi e fobie infantili nella mente della protagonista, alla ricerca di un affetto perduto.
Una nuova idea
Nel 2017 i due sono alla ricerca di una nuova idea altrettanto umanamente coinvolgente, e mi piace immaginarli negli studi di Ovosonico seduti ad ascoltare proprio la musica di Wilson, fino a sollevare in contemporanea lo sguardo fulminati dalle parole di un testo che fluttua sostenuto da note delicate e laceranti: conoscono bene l’autore, ma in quel momento Drive Home tocca una nota particolare del loro animo. La mossa successiva, logica e impossibile al tempo stesso, è di alzare il telefono e contattarlo direttamente – sì, direttamente Steven Wilson – con una proposta altrettanto impossibile e illogica: trasformare la storia del suo disco in un videogioco, prendendone i brani e usandoli come colonna sonora.
Steven, illogicamente, ci sta: senza colpo ferire manda ai ragazzi di Ovosonico le tracce, con la più totalizzante fiducia (e forse anche curiosità) di scoprire quanto possano davvero diventare… qualcos’altro. La storia si scrive da sola, il gameplay è classico e immediatamente subordinato alla narrazione, resta da cercare una soluzione grafica che possa permettere allo spettatore di sentirsi dentro la storia; abbandonata su due piedi ogni pretesa di realismo, contattano la regista Jess Cope, storica assistente di Tim Burton, per colorare con ogni pastello possibile il villaggio e i protagonisti del loro racconto.
Last day of June
Forse nella realtà la storia è stata più articolata di così, ma è così che me l’ha raccontata anni fa, quando ero suo studente, proprio Gianni Ricciardi – e, forse, proprio a causa dell’inconsueto processo con cui l’ha fatto nascere, mi ha convinto a giocare al gioco che ne è nato. “Last Day of June”, un rarissimo caso di videogioco nato dalla sua stessa colonna sonora. Si tratta di una (troppo) breve avventura/puzzle che ci fa vivere, insieme al protagonista Carl, la tragedia del continuare a vivere sapendo di essere sopravvissuti a qualcuno che amiamo, trasportati dal desiderio di poter cambiare e rivivere il passato.
Il corvo di Steven, nella seconda strofa di Drive Home, ci consiglia Release all your guilt and breathe, Give up your pain, Hold up your head again – ma sono sicuro che quando inizierete a giocare dimenticherete queste parole incise nel tempo e nei cuori di tutta l’umanità, e vorrete soltanto sfidare Chronos (il vero dio della caccia, per citare un altro grande artista contemporaneo) perché quell’ultimo giorno d’estate non sia l’ultimo.
I pittori creano immagini nel vuoto riempiendolo di colore fino a dargli spessore, gli scultori scavano la pietra in cerca di figure rimaste incastrate al suo interno. I musicisti, invece, cesellano il silenzio a colpi di sudore e dita in movimento: chi crea un gioco così ricco di verità compie un gesto altrettanto magico, traducendo in pixel e righe di codice l’animo umano.
di Diego Pugliese




