Non riesco a creare un’immagine che mi rappresenti. Ci ho provato, giuro, mille volte: palette colori studiate, font minimal, grafiche ordinate, quel senso di “sto bene anche in digitale”. Una foto carina qui, un pensiero ironico là, poi quella voglia di naturalezza e via: caos.
Il mio avatar è me. Pasticciata, discontinua, un po’ troppo tutto.
E allora guardo gli altri — quei profili ordinati, quelle griglie Instagram che sembrano musei zen — e mi viene da dire: che bello avere un avatar che ti rappresenta. Ogni tanto mi prende la sindrome del “butto tutto e ricomincio da capo”.
Poi però guardo bene, e ci sono dentro io. Caotica. Ma sempre io. Anzi, a guardare meglio, non abbastanza caotica, non abbastanza folle come sono nella vita vera.

Oriente, dove l’avatar è una maschera sacra

Perché mi trattengo allora? Riflettendo attraverso le filosofie orientali che ormai fanno parte di me da più di vent’anni a questo punto mi sorge il sospetto che sia lì che devo cercare una risposta. In Giappone si vive tutta la vita con due volti: honne, ciò che senti, e tatemae, ciò che mostri.
Non è falsità, è sopravvivenza relazionale.
Anche noi lo facciamo, solo con meno eleganza e più filtri. Ma la maschera, in Oriente, è un’arte, una disciplina, una scelta.
Spostiamoci dal Giappone, e andiamo dagli idol coreani, dove ogni gesto è progettato per sembrare spontaneo. Ogni avatar pubblico è scolpito in ore di prove, sorrisi calibrati e dramma dosato. Eppure funziona. È vero. In quella finzione c’è dedizione. E anche, forse, un po’ di verità.

Avatar pop: identità a noleggio

Nel mondo nerd asiatico, l’avatar è reincarnazione interattiva. Ci sono infiniti anime, manga, drama che ne parlano, per esempio in “The King’s Avatar” un campione decaduto rinasce nel suo nuovo personaggio: il gioco diventa luogo dove essere di nuovo qualcuno.

Se andiamo sul classico pensiamo a Motoko di “Ghost in the Shell”, corpo meccanico e mente umana. Lei è il suo avatar e al contempo non lo è: come noi, che non sappiamo più dove finisce la “bio” e inizia la biografia.

E Your Name? Anche lì, nello scambio di corpo tra i due protagonisti, si vive la vita come avatar di qualcun altro. Ma è proprio grazie a quello scambio che imparano a conoscersi. Come se a volte servisse indossare un’altra identità per tornare a casa nella propria.
Insomma: le metafore sono infinite e gli spunti di riflessione davvero tanti.
Ma torniamo al punto.

motoko kusanagi da ghost in the shell anime

L’onestà sta nel riconoscere il caos

Amo l’estetica orientale, quel fantomatico “zen” che va di moda da così tanto che nessuno sa più cosa sia, ma non riesco a replicarla nella mia presenza online.
Non sono ordine. Non sono equilibrio. E a tratti sì, lo sono, perché l’equilibrio non può essere tale se non ci cammini attraverso. Devi muoverti, devi sbilanciarti per restare in equilibrio.
In certe filosofie buddiste, non esiste un sé fisso.
Se cambi, se ti scompensi, se rinasci ogni volta che posti: sei solo vivo.
Non è l’avatar il problema.
È l’illusione che debba essere sempre perfetto.
Come noi.

Torniamo al Giappone

Quello zen, dove tutto sembra debba essere perfetto: non è vero. Adesso va di moda da queste parti anche il concetto di wabi-sabi: la bellezza dell’imperfezione, dell’incompiuto, di ciò che porta i segni del tempo. Un vaso con una crepa dorata vale più di uno nuovo.
E allora forse anche il mio avatar un po’ sbilenco, con mille registri e identità incrociate, ha un suo valore.

E quindi qual è la vera filosofia da seguire?

Il punto è che non è questa la domanda: noi non siamo il nostro filtro, né una cultura si può semplificare a slogan.
C’è chi riesce a sembrare coerente. Che invidia.  Ma non è obbligatorio. Non è quello che voglio.
Non è obbligatorio essere sempre leggibili, ordinati, magnetici, né una colpa avere un feed esploso.
E non è superficiale chi invece ha trovato un’estetica e la porta avanti con grazia.

L’unica cosa che conta — oggi, domani, ovunque — è sapere che non siamo solo quello che mostriamo. Non importa se seguiamo lo zen, il wabi-sabi, o la prossima moda aesthetic – il vuoto contenutistico può manifestarsi attraverso ogni forma. Così come la pienezza di messaggi, insegnamenti o semplicemente noi stessi.
E se mostriamo caos, o perfezione, che sia almeno una scelta sincera.
Io non sono il mio avatar. Ma ci sto facendo amicizia.

di Alessandra “Furibionda” Zanetti

Alessandra Zanetti
Alessandra Zanetti
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