Quella notte di fine ottobre del 1874 a Parigi faceva molto freddo. Mentre il vento ululava, minacciando un’imminente tempesta, Camille stava tornando a casa sua in Rue de Faubourg Saint-Honoré. La lunga redingote scossa dal maltempo riusciva a dare ben poco conforto dalle folate gelide, ma Camille aveva altro per la testa.
«Che notte terribile…» disse tra sé, intravedendo lampi di tuono in lontananza. «Sembra che Giove voglia scatenare la sua furia su Parigi, o che si debbano risvegliare i morti!».
Si scrollò di dosso il brivido che rapido gli corse su per la schiena, aveva ben altro a cui pensare, tornato a casa avrebbe dovuto affrontare sua madre, e darle finalmente la notizia. Era sicuro che non l’avrebbe presa bene, ma se ne sarebbe dovuta fare una ragione: per un uomo di 39 anni voler mettere su famiglia era più che ragionevole. Aveva anche già adocchiato una bella casa in Rue Monsieur-le-Prince, lei sarebbe potuta andare a vivere con loro, se avesse voluto.
Si accorse di avere a destra la chiesa della Madeleine, vedendola stagliarsi con le sue imponenti colonne fu sopraffatto dai ricordi. Franz stesso, sentendolo suonare lì dentro, lo aveva definito il più grande organista del mondo. Ripensò quindi al suo superiore Deguerry, l’abate assassinato pochi anni prima dai ribelli della Comune di Parigi, e di nuovo un brivido gli fece accapponare la pelle. Quasi gli sembrò di sentire ancora la sua voce, non si sarebbe stupito di ritrovarselo davanti una volta girato l’angolo. Un tuono più vicino degli altri lo riportò al presente, decise quindi di aumentare il passo.
Camille camminava a testa bassa, gli occhi socchiusi per combattere le prime gocce di pioggia. La mente tornò alla piccola Marie, così dolce e sensibile. Non aveva fatto parola con nessuno della loro relazione segreta, e ora aveva preso coraggio e le aveva chiesto di sposarlo. Lei aveva risposto di sì. I vent’anni di differenza anagrafica avrebbero sconcertato l’opinione pubblica, Camille lo sapeva bene, ma questa volta sarebbe andato fino in fondo. Sua madre avrebbe ceduto e dato la sua approvazione.
Un altro tuono, ancora più vicino, lo fece sobbalzare dallo spavento. Camille cominciò a correre verso casa, il freddo nelle ossa e la pioggia sempre più fitta cominciarono a preoccuparlo. Uno scroscio d’acqua feroce lo costrinse a trovare riparo sotto l’arco di un edificio. Camille osservò meglio: non aveva memoria della chiesa presso cui si riparava dalla pioggia.
La luce della Luna si fece strada improvvisamente da uno spiraglio fra le nuvole. Una calma apparente sembrò dominare gli alberi e le colline, l’acqua smise di cadere furiosa dal cielo. Dall’erba un profumo di terra bagnata e muschio si faceva strada fino alle narici di Camille, che non riconobbe il paesaggio attorno a lui. Non aveva idea di dove si trovasse. Quanto a lungo era fuggito dalla tempesta?
Caduta anche l’ultima goccia di pioggia, solo il silenzio faceva compagnia al bagliore lunare. Camille decise di tornare sui suoi passi, ma il sentiero da cui era arrivato sembrava portare dritto a una collina poco distante, completamente ricoperta di lapidi antiche: un cimitero. Senza che se ne accorgesse, già muoveva i primi passi verso le tombe, attirato da una strana forza invisibile.
Dietro di lui risuonarono nell’aria i rintocchi dell’unica campana della chiesa. Fin da piccolo aveva sempre saputo riconoscere le note musicali al primo ascolto, e già in lontananza, quasi fossero le corde pizzicate di un arpa, distinse nitidi i dodici Re della campana che annunciavano la mezzanotte. Ormai giunto tra le lapidi, ciò che vide lo pietrificò all’istante: una nera, alta e indistinta figura si sollevò dalla pietra tombale più alta, allungò il suo braccio rachitico e nella sua mano comparve il violino più spettrale che Camille avesse mai visto. Con gesto lugubre e deciso, la figura squarciò il silenzio suonando a due a due le prime terrificanti note della sua macabra danza.
Camille lo capì subito, il suo orecchio non mentiva: quelle note non avrebbero dovuto suonare in quel modo. Quella corda più acuta era sbagliata, era calante! Non un Mi ma un più lugubre e incerto Mi bemolle faceva ora il paio con il La sottostante! Quell’intervallo – quella distanza tra le note – i compositori esperti come lui lo conoscevano fin troppo bene, re delle dissonanze, evitato e corteggiato allo stesso tempo. Lo chiamavano diabulus in musica, il diavolo nella musica.
«Chi sei tu che suoni sulle lapidi? Mi terrorizzi, eppure mi sei familiare! Perché spargi per l’aria questi suoni raccapriccianti?» urlò Camille alla tetra figura. Ebbe le sue risposte guardandosi intorno, quando al richiamo funereo dei bicordi taglienti decine di scheletrici fantasmi si levarono fluttuando dalle tombe. I morti si risvegliarono attorno a lui. Fu per loro soltanto l’inizio della loro danza notturna.
Illuminati da un crepuscolo irreale, gli spettri si radunarono spinti dal ritmo incalzante della musica con gioia e sorrisi, quando li si riusciva a distinguere tra ossa e membra decomposte. I loro lamenti prendevano forma in un’orchestra di orrore, guidati dal violino maledetto e stonato in un botta e risposta di melodie concatenate. I morti danzavano in cerchi concentrici attorno alla figura, le ossa sbattendo nella frenesia risuonavano come sordi xilofoni in un coro grottesco. Camille si ritrovò accerchiato nel mezzo della festa forsennata.
Il violino suonò ancora, sempre più forte e tagliente. «Quel Mi bemolle è fuori dalla grazia del Signore!» urlava sofferente Camille. Dal mucchio si fece avanti una dama elegante, o quello che ne rimaneva, richiamando con movenze sinuose l’attenzione di una salma che a sua volta si faceva strada al centro del trambusto. Quest’ultima era di certo appartenuta a un poco di buono in disgrazia, ma la morte appiana le differenze e unisce tutti nella sua danza. I due protagonisti, raggiuntisi l’un l’altra, si diedero allora a effusioni lussuriose, scatenando l’ilarità dei fantasmi presenti. Le risate infernali erano trombe e tromboni nelle orecchie di Camille, disperato e ignorato, lasciato a piangere nel suo terrore.
Il violino suonò ancora, la musica attorno si fece più spaventosa e sinistra. Un cupo tremore si sparse attorno agli spettri, la Luna scomparve di nuovo in un cielo di tenebra. Il vento soffiò, un vortice iniziò a turbinare attorno alla danza. Non più risate ma grida di orrore si levavano ora dai defunti, che fluttuando nell’aria presero a vorticare a loro volta. Camille invocò a gran voce: «Marie! Mia dolcissima Marie! Ora che ti ho trovata già ti perdo, così come ho perso me stesso stanotte! Sposa di un uomo disperso, madre di figli mai nati, così disattendo i miei voti, in questo modo mi si nega la vita!»
Il violino suonò ancora. La danza e la tempesta erano ormai un tutt’uno. Camille non distingueva più le forme attorno a sé, in ginocchio fra le tombe. Gli scorrevano attorno i defunti del suo passato e le morti che ancora avrebbero dovuto verificarsi, tutti confusi in una danza eterna, evocati dalla maledizione di un Mi bemolle stonato. Avvolto da un incubo senza fine, Camille cedette alla disperazione.
D’improvviso un raggio di luce dilaniò le tenebre infernali. Fu subito silenzio, nell’aria il canto di un gallo, mistico oboe che annuncia salvezza.
Il violino suonò ancora, ma questa volta una timida e sommessa ritirata. Le anime dei defunti, coi loro ultimi lamenti, ritrovarono la strada per il loro riposo eterno. La nera figura mortale si dissolse. Camille fu avvolto da un bagliore sempre più intenso. Fu come se i suoi occhi si aprissero per la prima volta, la mattina della festa di Ognissanti.
Camille si svegliò nel suo letto, circondato dalla calda luce del primo giorno di novembre. Non ricordava come avesse raggiunto casa sua la sera precedente, né di avere ancora parlato con sua madre del matrimonio imminente. Poco importava, un Sole luminoso annunciava un futuro radioso, sarebbe andato tutto per il meglio.
Si ricordò improvvisamente del terribile incubo, le immagini si ripresentarono nella sua mente e rabbrividì di terrore per un istante. «Certo» disse, «che la fantasia non mi manca affatto. Devo essere stato suggestionato da quel bel poemetto grottesco di Henri. Però… e se lo facessi diventare… musica?».
Dopo un ennesimo brivido scacciò il pensiero con un brusco gesto della mano. Fu allora che notò, poggiato sulla sedia accanto alla finestra aperta, un piccolo violino. Non ricordava di averne mai avuto uno. Sentì freddo.
Attirato da una strana forza invisibile, si avvicino allo strumento e lo prese in mano. Lo osservò. Con un dito pizzicò le quattro corde per saggiarne l’accordatura. Sol. Re. La.
Mi bemolle.
Questa è la storia fittizia di quando il compositore Camille Saint-Saëns, ispirato dal poemetto Égalité, Fraternité di Henri Cazalis, scrisse per davvero la sua Danse Macabre, in cui scheletri e fantasmi danzano frenetici al ritmo del violino stonato della Morte.
di Matteo Desole