Mi piace pensare a questo mio piccolo angolo su Niente Da Dire come al mio tavolo preferito di un immaginario Diner, di quelli in stile americano, con le luci al neon che ronzano, i divanetti rossi e le grandi finestre che si affacciano sulla strada. Immerso in un’atmosfera vintage e onirica, questo posto nella mia mente somiglia un po’ al Double R di Norma a Twin Peaks. Accanto al tavolo c’è un vecchio jukebox, che contiene tutte le canzoni archiviate nella mia testa. Se anche voi volete scegliere il vostro brano, scrivetemi a martaminako.ndd@gmail.com e ne parlerò in uno dei prossimi appuntamenti. Potete ascoltare inoltre la playlist “Minako’s Jukebox” su Spotify, che raccoglie tutti i brani di cui ho parlato nei vari articoli di questa rubrica.
Quando ero bambina, ascoltando una quantità industriale di canzoni, mi rendevo conto di come ad un certo punto di alcune tracce “accadesse qualcosa”: la canzone in qualche modo “si trasformava” e si arrivava a un frammento diverso sia dalla strofa che dal ritornello. Avevo scoperto così l’esistenza di quello che all’interno dell’anatomia di un brano musicale pop o rock viene definito bridge.
Il cosiddetto “ponte” è quella porzione di brano che va a collegare due sezioni di una canzone, creando una transizione ad esempio tra una strofa e un ritornello o viceversa. Quando questa porzione è abbastanza lunga ed elaborata da assomigliare a una strofa, ma si discosta melodicamente e armonicamente dal resto del brano, il bridge viene chiamato anche special ed è frequente trovarlo per esempio tra gli ultimi due ritornelli di una traccia. Il bridge non è necessariamente presente in tutti i brani, ma può essere un “arma” utile al compositore per creare un “evento” all’interno del pezzo che ne aiuti l’evoluzione verso il suo climax e/o la coda finale.
In alcuni casi, il ponte può precedere o seguire parti strumentali come assoli di chitarra o altri strumenti, oppure può introdurre delle modulazioni che portano ad eseguire l’ultima parte della canzone in una tonalità diversa rispetto al resto. Il bridge, dunque, è una struttura spesso utilizzata per spezzare la monotonia che può derivare dalla ripetizione di una stessa porzione di brano, tenendo così vivi l’attenzione e il coinvolgimento emotivo dell’ascoltatore.
Arrivano le nostre bevande e, col bicchiere in mano, mi avvicino al jukebox per inserirvi la mia monetina:
“Got to walk out of here
I can’t take anymore
Going to stand on that bridge
Keep my eyes down below
Whatever may come
And whatever may go
That river’s flowing
That river’s flowing”
“Devo andarmene via da qui
Non ce la faccio più
Starò su quel ponte
Terrò i miei occhi verso il basso
Qualsiasi cosa arrivi
Qualsiasi cosa se ne vada
Quel fiume scorre
Quel fiume scorre”
È il 1986 quando esce So, il quinto lavoro discografico da solista dell’ex-leader dei Genesis Peter Gabriel. Il disco contiene la canzone che stiamo ascoltando insieme in questo momento, intitolata Don’t give up. Si tratta di un duetto eseguito insieme a Kate Bush, raffinata artista britannica che ha visto di recente tornare sotto i riflettori la sua hit Running up that hill a 37 anni dalla sua prima pubblicazione, dopo essere stata inserita nella colonna sonora di Stranger Things 4.
Don’t give up tratta il tema della disoccupazione ed esprime in modo toccante, ma allo stesso tempo crudo e diretto, il senso di disorientamento, di sconfitta e di disperazione del protagonista, interpretato da Peter Gabriel. Kate Bush dà invece voce alla speranza, ricordando come esistano sempre motivi per non arrendersi e come si possa sempre trovare il proprio posto nel mondo. Il ritornello interpretato dalla cantante inglese può rappresentare tanto un incoraggiamento proveniente dall’esterno, ad esempio da una persona cara, quanto la coscienza, la voce interiore del protagonista, che cerca dentro di sé il coraggio per andare avanti.
Il bridge è diviso in due metà: una è cantata da Kate Bush e l’altra, che curiosamente contiene proprio la parola “bridge” al suo interno, è interpretata dalla voce graffiante di Peter Gabriel. In questi versi, il ponte e il fiume che gli scorre al di sotto rappresentano la vita che prosegue nonostante tutto: un messaggio molto caro anche al collega Elton John, che ha dichiarato in un’intervista che proprio questo brano lo ha aiutato a ritrovare la forza nei momenti più difficili della sua vita.
Nel 2005, Bono e Alicia Keys si sono cimentati in un versione live di questa canzone, ma la mia cover preferita di Don’t give up si può trovare nell’album The Imagine Project del pianista jazz Herbie Hancock, pubblicato nel 2010. Questo riarrangiamento in particolare, interpretato dalle voci di Pink e John Legend, è impreziosito da una parte strumentale che precede il bridge.
È quasi orario di chiusura, ma Norma (ho deciso che chiameremo così la titolare del nostro Diner) ci concede di restare ancora un po’ per l’ultimo drink e l’ultima canzone:
“Vagavo per i campi del Tennessee
Come vi ero arrivato chissà
Non hai fiori bianchi per me?
Più veloci di aquile i miei sogni
Attraversano il mare”
Questo che stiamo ascoltando è il bridge de La Cura, celebre brano di Franco Battiato contenuto nel suo disco del 1996 intitolato L’imboscata. La canzone è stata co-scritta dal cantautore siciliano insieme al filosofo Manlio Sgalambro, e se a una prima lettura può essere percepita come una romantica canzone d’amore, il suo vero e profondo significato non è mai stato esplicitato dal compianto Maestro. Molti dei brani di Franco Battiato riflettono la sua spiritualità vicina alle correnti di pensiero esoteriche e alle filosofie orientali.
Alla luce di questo, La Cura può essere interpretata come una canzone in cui l’anima parla al suo “sé stesso”, in cui lo spirito si prende cura del suo corpo umano e delle sue debolezze per spingerlo ad elevarsi alla ricerca della conoscenza e del bene superiore, al di là della vita e della morte, tema peraltro ricorrente in altre composizioni dell’artista catanese.
Da persona pragmatica quale sono, mi piace vederla in un’ottica un po’ meno filosofica, e mi permetto di affermare che La Cura può essere dunque una canzone di profondo amore verso sé stessi, che nulla ha a che vedere con la vanità o l’egoismo, ma è orientato piuttosto verso la crescita personale e la realizzazione della propria persona e dei propri progetti. I nostri sogni possono diventare reali solo se noi stessi costruiamo dei solidi ponti per mezzo dei quali possono giungere a noi, attraversando anche il mare più vasto e profondo.
È curioso notare come da due brani così apparentemente lontani tra loro sia invece possibile trovare un collegamento, una sorta di “ponte” (per restare in tema) tra la Sicilia e il Regno Unito, terre d’origine dei due artisti presi in esame. L’imboscata di Franco Battiato vede tra l’organico dei suoi strumentisti il chitarrista David Rhodes, collaboratore storico proprio di Peter Gabriel e noto ai cinefili per aver composto la colonna sonora del film d’animazione La gabbianella e il gatto.
Ma non è tutto: Gabriel e Battiato sono caratterizzati entrambi da un interesse per l’esoterismo e le filosofie orientali che spesso nelle rispettive carriere hanno ispirato le loro composizioni. Nonostante questo, la tematica da cui parte Peter Gabriel per scrivere Don’t give up ha una dimensione molto più “umana” e “terrestre”, rispetto a quella più “astratta” e “spirituale” ricercata da Battiato insieme a Sgalambro ne La Cura.
Mi piace pensare che, sebbene veicolato da linguaggi diversi, il messaggio di fondo possa essere comune a entrambe le canzoni: per quella che è la mia visione, ambedue i brani possono essere visti, tirando le somme, come dichiarazioni d’amore verso sé stessi e verso la propria vita, al di là delle difficoltà, delle paure e degli ostacoli che ci si parano davanti.
Sfumano le ultime note, Norma spegne le luci. È ora di andare.
di Marta “Minako” Pedoni