Rian Johnson: Il Ritorno di Jedi, Spade e Re

Di recente, Rian Johnson ha dichiarato di essere, se possibile, ancor più fiero di Star Wars – Gli Ultimi Jedi di quanto già non fosse all’epoca dell’uscita del tanto discusso ottavo episodio della saga. Ovviamente, la sua affermazione ha sollevato un polverone di risposte favorevoli e contrarie.

Tutti i fan di Star Wars sanno bene quanto le scelte narrative di Johnson siano risultate divisive per la comunità galattica. Se la famigerata scena del latte verde e la gag del ferro da stiro/star destroyer vi hanno fatto storcere il naso, non mi sento di biasimarvi (non hanno ucciso la mia infanzia, ma non mi fanno neanche impazzire). Questo per dire che comprendo bene alcune delle piccole e grandi controversie che circondano il film e non è mia intenzione schierarmi ciecamente o gridare al capolavoro. Vorrei invece discutere con voi di un aspetto narrativo degli Ultimi Jedi di cui non sento mai parlare.

Si sono scritti volumi sull’attinenza di Star Wars al Ciclo Arturiano, basta leggere Campbell per farsi un’idea molto chiara. Se Anakin Skywalker è Uther Pendragon, il prescelto che avrebbe dovuto salvare il regno, ma che è poi caduto in disgrazia per via di attaccamento e lussuria, suo figlio Luke Skywalker è palesemente Re Artù, giovane di umili origini cresciuto in segreto da genitori adottivi ma destinato a grandi cose. Obi-Wan Kenobi è Merlino, ultimo grande mago e custode di una religione panica in via di estinzione, che aveva confidato in Uther, e che ora rivolge le sue speranze al figlio di lui, pregando che non commetta gli errori del genitore. Gli dona quindi la spada laser di suo padre, Excalibur, che anche Luke estrarrà, non dalla roccia ma dalla neve, usando la Forza, simbolo del potere tramandatogli dal genitore. A quel punto, Luke si lancia al salvataggio della Principessa Leia, che in questo caso veste il ruolo apparente di Ginevra, e incontra il suo futuro migliore amico Han Solo, smargiasso cavaliere errante che si innamorerà, come Lancillotto, dell’apparente promessa sposa di Artù. Se non fosse che Leia si rivela invece essere Morgana, la sorella perduta di Artù. Come Morgana, anche Leia possiede “poteri magici” e condivide col fratello un’attrazione incestuosa. Se ci fossero ulteriori dubbi sull’attinenza di queste due figure, basti pensare che il cognome di Leia è proprio Organa (coincidenze? Io non credo).

Ora, questi sono parallelismi piuttosto noti. Eppure, c’è un aspetto della saga arturiana che si tende a dimenticare, un capitolo che viene sistematicamente omesso nelle migliaia di riproposizioni hollywoodiane per l’infanzia. Nella Saga Arturiana, Re Artù riesce in effetti a diventare più nobile e migliore di suo padre. Ma il suo regno di rinnovato splendore ha vita breve e termina comunque in tragedia. L’incestuosa attrazione di Artù e Morgana finisce per generare un figlio violento e malvagio, Mordred. Artù si ritirerà nella vergogna e nell’esilio, dal quale uscirà solo per affrontare il figlio. Lo scontro però termina in tragedia, con padre e figlio che si trafiggono a vicenda in un letale abbraccio, e con Excalibur, simbolo di pace, ora macchiata di sangue. Così finisce la storia. Ma non del tutto, e non per sempre. Perché è proprio la nuova saga di Star Wars a riproporre quest’ultimo atto del racconto, ed è proprio Rian Johnson a toccarne l’aspetto più oscuro e profondo. Andiamo con ordine. Kylo Ren (alias Ben Solo) non è altri che Mordred. Figlio di Leia Organa, non è biologicamente figlio di Luke (le implicazioni incestuose sarebbero eccessive), ma ne è di certo l’allievo, l’erede e il figlio adottivo. Quando Ben passa al Lato Oscuro, Luke si isola, mettendo in discussione la sua stessa figura eroica-messianica.

Certo, Luke ha distrutto la Morte Nera, salvato la Galassia, ma ha anche ucciso milioni di persone; ha redento suo padre rifiutandosi di fare quello che sia i Jedi che i Sith gli intimavano di fare, cioè ucciderlo. Ha superato il dualismo delle parti per un momento cruciale, ma poi, ha rifondato l’ordine dei Jedi, lo stesso ordine la cui ipocrisia aveva portato suo padre all’estremo opposto dei Sith. Luke ha raggiunto la vittoria del Lato Chiaro su quello Oscuro, ma mai l’Equilibrio di cui si parlava nella Profezia del Prescelto. E quella vittoria della luce, alla fine, porta solo alla rinascita del buio, un ciclo infinito di guerre e conflitti. Insomma, quello che ritroviamo è un Luke sconfitto dal paradosso della sua stessa vittoria, sconfitto dal trionfo dell’eroe. E la cosa ci fa male. Mark Hamill stesso ha affermato, con ammirevole candore, di essere in totale disaccordo con la visione di Rian Johnson. “Luke dovrebbe essere l’eroe ottimista per eccellenza” ha detto a Johnson, e questo è vero. Ma il mostrarlo più adulto e vulnerabile, mostrarlo mentre mette in discussione la sua stessa leggenda non è uno snaturamento del personaggio, è solo il ritratto di un momento nella vita dell’eroe che tendiamo quasi sempre ad omettere. Perché ci ferisce.

Gli Ultimi Jedi, così come L’Impero Colpisce Ancora, è il mondo adulto e complesso oltre la favola. Luce e Ombra si scoprono parenti, Bene e Male si generano a vicenda in un ciclo infinito, la guerra si rivela violenta a prescindere dalla parte che si sceglie e l’eroismo stesso si mostra come parzialmente indottrinato nella mente dell’eroe. Gli Ultimi Jedi è un racconto cupo, un dramma. Ma non è una tragedia. C’è una frase nell’adattamento del Ciclo Arturiano di John Boorman, Excalibur (1981), che fa riferimento alla spada del titolo. Merlino dice a Uther: “Tu avrai la Spada. Ma per sanare, non per spaccare.” Questa frase racchiude in sé l’intero paradosso delle saghe eroiche, lo stesso paradosso che Luke cerca di sbrogliare. Come può un’arma, uno strumento di morte, essere simbolo non di violenza ma di salvezza?

Ecco che Luke si trova di fronte al dilemma che fu di Artù, sua precedente incarnazione. Suo figlio adottivo Kylo/Mordred sta attaccando l’ultimo baluardo dei Ribelli con tutto l’esercito del Primo Ordine al seguito. Già una volta Luke ha alzato la sua spada sul suo allievo, già due volte il Lato Chiaro e quello Oscuro lo hanno spinto a versare il sangue del suo sangue. Per questo, ben due volte, Luke ha gettato letteralmente la sua spada a terra. Ma ora, il suo stesso allievo, la sua responsabilità, è sul piede di guerra per uccidere sua sorella Leia, la sua nuova allieva Rey e tutto quel che resta della Ribellione. Se Luke resta in esilio, condannerà tutti a morte certa, ma se uccide Kylo/Ben, perderà per sempre quella parte di anima che è riuscito a preservare per decenni, andando incontro alla tragedia arturiana già scritta.

Ed ecco che si fa strada il genio di Johnson. In un colpo di scena a lungo atteso, Luke compare a difesa dell’ultimo rifugio Ribelle. Non è lo stesso Luke logoro e depresso che abbiamo visto finora, ha le vesti nere del Ritorno dello Jedi, la barba curata e il taglio di capelli che portava da giovane. Ma soprattutto, impugna la spada laser di suo padre. Vedendolo, Kylo scende dal suo mezzo e, in preda all’ira, lo affronta in quello che sia lui che noi pensiamo sarà il più epico duello di sempre. Ma anziché affrontarlo, Luke schiva quasi magicamente colpo dopo colpo. Mai una volta la lama azzurra di Luke incrocia quella di Kylo. Perché Luke non sta giocando al suo gioco. Difatti, Luke non sta nemmeno facendo la sua parte nella sua stessa leggenda. La mitologia a cui lui appartiene vorrebbe l’eroe a cavallo, spada alla mano, lanciato in un ultimo tragico trionfo di forza bruta e di onore. Ma Luke non sta cercando più di fare l’eroe, Luke sta facendo qualcosa di più. Così come l’assalto di Aragorn al Cancello di Mordor nel Signore degli Anelli non è l’atto risolutivo, ma solo un’esca per distrarre Sauron e permettere a Frodo di distruggere l’Anello e, letteralmente, rompere il cerchio di guerra e violenza, così l’atto di Luke è soltanto un’esca per Kylo, il quale, come Sauron, è imprigionato dalla sua stessa natura in una logica di guerra: la vittoria avviene solo e soltanto sconfiggendo il nemico. Sia Kylo che Sauron pensano che i loro avversari giocheranno a quel gioco, perché è l’unico gioco possibile.

Ma Luke, come Aragorn, non è Re Artù. Lo spirito dell’antico eroe si è reincarnato, storia dopo storia, e alla fine, ha trasceso la logica violenta di cui era figlio letterale e narrativo. In un complesso gioco di specchi, sia Aragorn che Luke recitano la parte dei loro antenati, delle loro precedenti incarnazioni di re ed eroi. Giocano la parte del Guerriero che cerca la vittoria delle armi. Anche Aragorn attira il suo avversario, Sauron, in battaglia facendo scintillare la spada che fu del suo antenato caduto in disgrazia. Quella spada aveva tagliato via l’Anello dalla mano di Sauron. Una vittoria delle armi, che però non aveva di fatto distrutto l’Anello, origine di ogni male e simbolo del ripetersi della Storia e della violenza. Sauron lo sa bene, sa che finché gli Uomini crederanno di poterlo sconfiggere in battaglia e impossessarsi dell’Anello, Lui, che è l’Anello stesso, vivrà. Per questo accetta la sfida di Aragorn.

Ma nel caso di Luke, la messa in scena raggiunge un livello quasi meta-narrativo. Perché se Aragorn riforgia ed impugna la spada del suo antenato al solo scopo di attirare Sauron, la spada resta pur sempre una spada, e lui resta pur sempre un re; mentre, invece, Luke diventa pura leggenda, scendendo in battaglia come una mera proiezione di se stesso. Una proiezione quasi cinematografica se pensiamo che Luke ha letteralmente evocato proprio quella versione eroica di sé che tutti, compreso Kylo, aspettavamo di veder comparire in scena. Ha attirato Kylo Ren con la promessa di una vittoria delle armi, con la promessa della spada Excalibur che Kylo/Mordred tanto bramava, e nel frattempo, tutti i Ribelli sono fuggiti. Ma di fatto, Luke non è mai stato fisicamente presente. Con grande sorpresa di Kylo e del pubblico, la Spada Excalibur, e Luke stesso, hanno finalmente trasceso la propria natura, si sono proiettati oltre la loro stessa fisicità per diventare immagini, storie, una lama che non può e non deve più tagliare ma solo ispirare, una spada per sanare, e non per spaccare.

Lo sforzo della proiezione costa a Luke la sua vita terrena, ma se ne va con la consapevolezza di aver salvato tutti quelli che ama, compreso il suo allievo, di aver superato la maledizione tragica e violenta legata alla sua leggenda, e di aver creato un nuovo mito, un mito capace di trascendere lo spazio, la materia e perfino quel dualismo di eroismo senza macchia e corruzione irredimibile che avevano condannato i suoi mentori e padri, un mito capace di abbracciare e portare equilibrio. Malgrado tutte le sue imperfezioni, Gli Ultimi Jedi non è, quindi, una semplice riproposizione, ma un superamento della tragedia arturiana, un superamento del ciclo distruttivo e perfino un superamento di quel dualismo occidentale che brama la sconfitta fisica del nemico anziché l’evoluzione del soggetto verso un armonia degli opposti, e verso quel famoso Equilibrio tanto ricercato nella saga di Star Wars, il Graal arturiano capace, forse, di porre fine alle guerre stellari. Era questo che sentivo nell’aria, entrando nello Shrine, alla World Premiere degli Ultimi Jedi a Los Angeles. Il volto di Luke mi guardava dallo schermo gigante, proiettato al centro di una immensa sala di teatro rossa dove riecheggiavano le note di John Williams, e sapevo che qualcosa di mitologico stava finalmente per compiersi e concludersi.

Quando, alla fine del film, sono andato a scambiare due parole con Rian Johnson, io avevo gli occhi pieni di meraviglia, e lui di paura. “Ti è piaciuto il film?” mi ha chiesto con un tono preoccupato che mi ha quasi commosso. Ho condiviso il mio entusiasmo, lui ha sorriso, ma la paura è rimasta. Sapeva bene di aver fatto qualcosa di controverso, qualcosa che avrebbe lasciato tutti scossi e sorpresi. “Non andrà a finire come pensi”, dice Luke nel film, ed è vero. Ma Rian Johnson è un vero scrittore, e ha deciso di prendersi dei rischi, di non raccontare la storia che volevamo per raccontare quella di cui forse avevamo bisogno. Perché per quanto ci possa piacere trattare la saga con relativa leggerezza, Star Wars non è solo un franchise, Star Wars è un mito. E come dice Johnson stesso: “I miti non sono fatti per vendere action figures. Sono fatti per aiutarci a comprendere le più importanti transizioni della vita.”

di Lorenzo Pelosini

Lorenzo Pelosini
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