La pace sta diventando un tabù?

Qualche anno fa non avrei mai immaginato la necessità di dedicare un articolo, anzi un numero intero di Niente da Dire alla pace.
O meglio, al significato di questo termine. Non avrei mai immaginato di dover utilizzare perifrasi e trucchetti sui social per non nominare direttamente e girare intorno a un argomento così ovviamente condivisibile.

Ci sono così tante ovvietà che tuttavia forse sono state date così per scontate che a un certo punto, certe persone – non tutte – hanno scordato.
È ovvio, è naturale, è legittimo che io, la mia famiglia, i miei amici abbiano una casa, un lavoro, una vita.
Che la mia dolce sorellina vada serenamente a scuola.
Che il mio amato nonno si lamenti davanti ai cantieri troppo lenti dove gli operai sbagliano tutti i lavori.
È ovvio che la parola pace sia positiva, e che la sua connotazione sia discutibile solo in relazione al concetto opposto di conflitto.
È naturale che in una società civile e civilizzata, come essa stessa ama definirsi, vi sia la pace.

È legittimo che io mi schieri contro ogni forma di violenza, guerra e oppressione.

La guerra è cosa di altri tempi.
La guerra è cosa di altri.
Non vi è anima alcuna che oserebbe imprudentemente inneggiare alla distruzione di luoghi, popoli, bambini.
Davvero?
È ancora così?
È sempre stato così?
Vivo forse in una bolla di ipocrisia lastricata di civili intenzioni?
Vivo forse in un incubo dove le parole vanno soppesate a tal punto che si stanno creando nuovi tabù? Dopo tutta la fatica fatta per parlare apertamente di sesso o di altri argomenti fondamentali per l’esistenza?
La pace sta diventando un tabù?
La pace mette in difficoltà la comunicazione pubblica?

È preoccupante

Quando ci si inizia a chiedere se un concetto – non un’opinione, ma un concetto proprio che eticamente è sempre stato per definizione dal lato giusto della morale – sia esprimibile liberamente, è un segnale preoccupante.
Voglio essere esplicita, mi pare assurdo che mi stia preoccupando di come utilizzo le parole affinché non rischino di far danno al lavoro di tutta la redazione facendo oscurare un’eventuale condivisione di questo testo.
Non sto scrivendo scabrosità, eppure mi sento a disagio come a parlar di sesso con i miei genitori.

Non mi capacito, io voglio che sia chiaro quanto malessere provo pensando alla mancanza di libertà di espressione.
Perché non è assolutamente il caso del boomeristico “eh ma non si può più dire niente”: è un concetto e un momento specifico. È riferito a questa cosa specifica, non a tutto quanto. Non è un ambiguo black humour che scomoda razzismo o sessismo e può essere offensivo perché purtroppo portavoce di un pensiero serio e ignorante in cui fin troppe persone si rispecchiano con serietà e non con sprezzante sarcasmo.
No, non divago, anche se vorrei, ma no, non è la stessa cosa.

È inconcepibile

Per me che la parola pace sia da usare con cautela sui social, su quei social superiori, liberi, colossali, indipendenti rigorosamente occidentali?

Mi trovo a disagio, estremamente fuori posto e senza parole, continuo a fermarmi e prendere fiato perché non so davvero come possa essere accettabile e accettato che ci sia stata questa piega. Era prevedibile? C’erano segnali? Non lo so, non so nulla di geopolitica e non sono una complottista.
In questo momento vedo e sento il disagio mio e di chi mi circonda perché non sa come dire quello che vorrebbe, perché sono, siamo esterrefatti davanti a una storia che si ripete, con soggetti sempre diversi, ma sempre nelle stesse modalità.

E ogni volta c’è qualcuno che si sente nel giusto a compiere un genocidio.

Dove si trova esattamente la supposta superiorità civile, civilizzata e pertanto civilizzatrice di cui tanto ci fregiamo? Non so.
Ma ho un idea di dove si trovi la supposta.

di Alessandra “Furibionda” Zanetti

Alessandra Zanetti
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