Intervista a Massimo Bonfatti, dagli esordi francesi a Cattivik

Il caldo è quasi soffocante, tra gli stand del Torino Comics. Macchie di inchiostro si ripetono tra i tavoli dei disegnatori, ma una risulta più grande rispetto agli altri: tra i fogli bianchi sbuca, infatti, il sorrisone di Cattivik, delineato nei dettagli dall’illustratore Massimo Bonfatti.

Mi accosto a osservare la mano che si muove agilmente, sommersa da un capannello di curiosi ed estimatori. Bonfa sorride, prepara commissioni per i suoi lettori e scherza amabilmente col suo maestro e compagno di stand, Clod.

Facendo capolino dalla scrivania, chiedo a Bonfa di rilasciarmi un’intervista, di parlarmi della storia della sua carriera artistica, dei girovaghi e del team capitanato da Silver. Lui accetta con lo stesso sorriso con cui l’avevo visto pochi minuti prima disegnare.

In pausa caffè, mi parla del suo mondo, che è la scuola del fumetto fatto bene, quello dove i personaggi vengono rispettati nella loro dimensione di archetipi e le storie rispecchiano la società in cui sono stati creati.

Di seguito, la mia intervista a Massimo Bonfatti. Buona lettura.

Chi è Massimo Bonfatti?

Sono un autore di fumetti in un certo senso “fallito”, perché non ho raggiunto i miei obiettivi quando era il momento di raggiungerli. Però, in fondo, sono stato anche causa del mio fallimento, nel senso che non sono sceso ai compromessi necessari per raggiungere un altro tipo di successo e quindi sono contentissimo della mia carriera odierna.

Qual è stato il primo fumetto che ti ha catturato? La scintilla che ti ha fatto dire “come sarebbe bello fare un lavoro del genere”?

La scintilla? Interessante perché devo scavare un po’ nella memoria. Ti direi i fumetti di Magnus, quelli che leggevo nei giornalini che compravo in edicola e che, poi, cercavo di imitare. Ad esempio, Andy Capp di Reg Smythe, Alan Ford di Magnus e Max Bunker. C’era forse anche un po’ di Topolino tra le mie ispirazioni, un po’ di Tarzan. Mi piaceva molto il fumetto d’avventura.

Insomma, tutto ciò mi hanno affascinato, suggerendomi l’idea che si potesse vivere disegnando. Le vedevo uscire ogni mese nelle edicole a un certo prezzo, quindi dove c’è un prezzo da pagare c’è anche chi ci guadagna.

Dal passato a oggi: le storie come quelle di Cattivik, pubblicate negli anni ’90, potrebbero funzionare nella società odierna? Le nuove leve del fumetto potrebbero riproporre racconti del genere ai lettori?

bonfa e clod al torino comics

Dunque, se un personaggio ha le qualità che un buon personaggio deve avere, non c’è epoca storica che possa impedirgli di manifestarsi nel pieno delle sue potenzialità. Un vero personaggio, quando è riuscito, contiene in sé delle caratteristiche umane permanenti e, quindi, le storie che tu ci puoi creare intorno troveranno sempre una corrispondenza nei gusti delle persone, perché ci si riconoscono.

In Cattivik si riconoscevano tutti quegli adolescenti che avevano voglia di ribellione al perbenismo, alla superficiale onestà che consisteva solo di apparenza e non di sostanza. Per cui Cattivik si mette contro la società e contro la legge perché è nato emarginato, è nato incompreso al pari di come potevano sentirsi anche gli adolescenti di ieri. Quindi Cattivik piaceva agli adolescenti, ma anche agli adulti che conservavano dentro questo ragazzino, il loro riflesso da giovani.

Personaggi come Cattivik possono funzionare oggi, a patto di rispettare la loro essenza.

Non è l’affidare un personaggio ad autori più giovani, che gli danno caratteristiche apparentemente più moderne, il modo infallibile per portarlo a un conseguente rilancio. Esso viene rilanciato se gli autori che lo raccontano lo riescono anche a interpretare bene.

I personaggi diventano archetipi e come tali vanno rispettati.

Da Lupo Alberto a Cattivik fino ad arrivare a Topolino, quanto c’è di te nelle tavole che illustri?

Dipende dal personaggio e dallo spazio che mi viene concesso in fase creativa. Per Cattivik, Silver (che è il proprietario del personaggio) mi lasciava libertà totale, potevo addirittura scrivere le storie o modificare sceneggiature già scritte da altri.

Creare, persino, personaggi di contorno. Ad esempio, creai un antagonista di Cattivik in una storia, quasi casualmente, che poi si è ripetuto in centinaia di copertine e di altre uscite, diventando la spalla di Cattivik.

Ma anche in altre produzioni, come quelle di Topolino, dove ho potuto mettere poco di mio a livello inventivo, però sono riuscito a dare qualcosa rispetto all’amore per il personaggio e per le storie ben fatte.

Quindi, l’accuratezza nel disegno e lo sforzo di capire e assimilare l’intento dello sceneggiatore: questo è quel qualcosa di mio a cui tengo, anche se poi è difficile riconoscere il mio DNA nelle tavole. Ci sono io perché c’è la mia voglia di fare le cose fatte bene.

Per me il fumetto bello è il fumetto fatto bene, non il fumetto che assomiglia a me.

Hai collaborato anche con realtà estere, come quelle dell’editoria francese: che differenza c’è tra i team e la parte editoriale estera rispetto a quella italiana? In quale ti trovi più a tuo agio?

Dunque io ho lavorato per una casa editrice francese tanti anni fa: ero molto giovane, agli esordi. Non è stata una grandissima esperienza, perché il personaggio mi piaceva relativamente poco e anche i rapporti lavorativi erano viziati dal fatto che mi snocciolavano una storia ogni tot mesi, quindi non era nemmeno efficace nel far quadrare i miei bilanci.

Però è stato utile per imparare delle cose che non sapevo e condividerle con il mio maestro Clod, che lavorava per la stessa casa editrice. Secondo me, però, tra le case editrici non cambia molto.

Parlavo con una mia amica fumettista, che sta pubblicando i suoi fumetti in Francia e che mi confidava che “sembra che gli editori stiano facendo tutti la stessa scuola: per essere tutti stronzi uguali!“.

Sembra quasi obbligatorio che gli editori debbano comportarsi male in alcune circostanze con gli autori, quasi come se fosse una specie di strategia per tenerli al loro posto. Una visione secondo me molto antica e falsa di ciò che dovrebbe essere il rapporto di lavoro. Soprattutto in un mestiere dove quello che conta è la sinergia tra autori, editori e contesto produttivo. Il nostro scopo deve rimanere quello di far percepire ai lettori il mondo che si ama e che è quello che amano anche loro.

Ci sono stati dei casi, sia in Francia che in America, ma anche in Italia e in altri posti d’Europa, dove si sono create delle magiche sinergie e un modo armonico di lavorare basato sulla fiducia, sull’entusiasmo e sulla reciproca stima. Tutto ciò ha dato vita a fenomeni editoriali sorprendenti.

Lavorando con Silver, noi autori avevamo la netta percezione di avere come editore un autore che stimavamo e che ci stimava.

Questa semplice proposizione è micidiale, perché spinge tutti a dare il meglio di sé stessi.

E questa cosa i lettori lo capiscono.

Dare il meglio di sé, oltretutto divertendosi. Ci volevamo divertire, perché sapevamo che Silver si sarebbe divertito con noi, proprio come accade in una famiglia serena: possono accadere ogni tanto degli attriti, ma fondamentalmente se c’è serenità si lavora bene.

cattivik

C’è un personaggio che ti piacerebbe creare o uno già esistente su cui vorresti lavorare?

Sì, è uno dei primi fumetti che creai da giovane. Quando andavo ancora a scuola, inventai un gruppo di girovaghi che se ne vanno in giro con un carrozzone: creai un mondo che non esiste più, ovvero quello dello spettacolo errante, dell’improvvisazione.

Questa dimensione, un po’ poetica, mi è sempre piaciuta. Io sono figlio di un ambulante, di una persona che da bambino mi portava nelle fiere, nelle sagre di paese.

I girovaghi… non li disegno mai. Ogni tanto mi metto a scrivere alcune strisce, però non sono mai riuscito a seguirli regolarmente perché, dovendo dare precedenza alla professione, disegno ciò che mi viene pagato e non quello che mi piacerebbe fare. Poi, però, riesco sempre a trovare il modo per farmi piacere ciò per cui vengo pagato.

I miei personaggi del cuore rimangono. comunque, i girovaghi e dico sempre che li lascio girare nelle zone sconosciute del mio cervello. Ogni tanto si fanno vivi, mi raccontano le loro storie e io so che poi un giorno le racconterò anche ai miei lettori.

Li nasconderai nelle storie che ti commissionano?

Magari qualche cosa di loro la posso infilare nelle storie che mi commissionano, certo. Succede. A volte ci sono delle idee nate per una cosa che poi scivolano in un altro progetto.

Ma così, per partenogenesi, no? Si creano da sole e si moltiplicano come funghi. Tu fai un appunto di un’idea e scopri, dopo mesi, che quell’appunto può generare un’infinità di storie differenti, che stanno già diventando concrete perché cominciano ad avere una dimensione articolata.

Un embrione che ha voglia di crescere. Quindi tu lo lasci crescere, ti aspettavi sbocciasse un fiorellino e invece stanno spuntando sei rami. Le idee hanno questo aspetto un po’ biologico.

Massimo, cos’è che ti lascia senza niente da dire?

Questa è una domanda bizzarra. Interessante, però.

Beh, credo che siano quelle questioni legate alla sofferenza umana più profonda.

Se devo fare un qualcosa che riguarda, ad esempio, le stragi o la distruzione dell’ambiente, mi sento molto responsabile di ciò che sembra una banalità, ma che vorrei fosse utile come spunto di riflessione sociale.

Una delle ultime tavole che ho consegnato parlava dell’intelligenza artificiale sotto forma satirica. Ma l’intelligenza artificiale è un grosso problema, perché ho paura di tutte quelle innovazioni che sembrerebbero dare grandi risposte all’umanità, ma poi vengono sfruttate solo per creare nuovi business.

E questo mi angoscia.

Non puoi creare, ad esempio, un farmaco per il bene dell’umanità al solo scopo di generare guadagno, fregandoti dell’umanità che ne ha bisogno. Ecco, questo mi lascia molto perplesso. Se ne devo parlare, per farne una storia o per fare una vignetta satirica, ho bisogno di rifletterci per essere sicuro di non dire una cosa stupida o banale, che è ancora peggio.

 

Miriam My Caruso

Miriam Caruso
Miriam Caruso

Caporedattrice di Niente da Dire, è giornalista pubblicista dal 2018, nel campo nerd, divulgativo e musicale.
Nel 2018 fa il suo ingresso nel digital marketing grazie ad Arkys, verticalizzandosi nella SEO e imparando a mettere a punto strategie di marketing per le aziende.
Nel contempo si laurea in Comunicazione e Tecnologie dell’Informazione nel 2020, acquisendo la lode con una tesi antropologica dedicata al Cannibalismo e agli Zombie di Romero. Nel tempo libero, per non cambiare strada, scrive racconti e gioca a giochi da tavolo e canta, sotto la doccia, fuori, ogni volta che può.

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