Linee semplici e grossolane, silenzi, introspezione: queste le caratteristiche che mi hanno colpita al primo sguardo, mentre leggevo le vignette di Fumettibrutti su Instagram. Il suo modo di esprimere i sentimenti, senza filtri sociali, in alcuni casi mi coinvolgeva, facendomi sentire compresa.
Poi, l’ho rivista dal vivo a Cosenza, durante Le Strade del Paesaggio XIII edizione nel 2019. Esile, salì sul palco per ricevere un riconoscimento speciale nell’ambito della quinta edizione del Premio Andrea Pazienza. Una foto insieme, lei che sussurrava “oggi mi sento brutta però” e io a confortarla che in realtà era bella come sempre.
Ancora, la rincontro all’ultima Games Week di Milano allo stand Feltrinelli. Ho letto la sua storia, percependo grande forza nel reagire alle difficoltà e alla sofferenza e ciò si riflette all’interno di un caleidoscopio di immagini e parole che sono le sue illustrazioni.
La sua storia è la storia di molte e molti.
Così, decido di sporgermi tra i suoi libri per chiederle di scambiare due parole per questa intervista. Con un sorriso, si avvicina e cominciamo a chiacchierare. All’apparenza due adolescenti, forse troppo cresciute, che parlano di cose da adulti. Ecco, quindi, la mia intervista per NientedaDire a Josephine Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti.
Chi è Josephine Yole Signorelli?
Josephine Yole Signorelli è Fumettibrutti e Fumettibrutti è Josephine Yole Signorelli.
Fumettibrutti nasce nel 2017, anche un po’ prima a dire il vero. Avevo deciso di creare fumetti esattamente nello stesso modo in cui scrivevo: quindi disegnando male. Ciò mi ha aperto tantissime possibilità rispetto alle storie che potevo raccontare.
Da bimba trans ad adulta, ci vuole tanta forza per affrontare il percorso di transizione.
Anche un po’ di incoscienza, perché non devi fare caso ai commenti degli altri. Ricordiamoci che una persona transgender che decide di seguire il percorso di transizione non sta facendo del male a nessuno. È una cosa che tendo spesso a sottolineare proprio perché molte persone si sentono, magari, anche in colpa quando succede che devono fare coming out. È bene ricordarci, invece, che non dobbiamo mai rinunciare a poter respirare.
Nessuna persona lo farebbe, quindi nemmeno noi possiamo.
Hai parlato di te nella tua trilogia, quasi a mostrare alle stelle che ti seguono che si può brillare anche nella solitudine, se necessario. Qual è il tuo rapporto con la community?
Ho cominciato a chiamare la mia community stelle perché la parola stessa non ha un genere.
Le stelle illuminano la notte ai naviganti grazie alla loro luce, mostrando la via a tutte e tutti. Ciò mi è sembrato molto dolce, anche per ricordare il soprannome che mi dava mia madre da piccola, che è proprio stella. Come ho raccontato anche nel mio secondo libro, è una parola che vorrei che qualcuno usasse con me.
Quando dico “stelle, dobbiamo brillare di più”, lo dico anche in riferimento al fatto che, facendo luce insieme, siamo in grado di squarciare il buio.
Sui social racconti le tue emozioni senza filtri. Quando ti leggo e vedo i tuoi disegni, a volte, mi sento anch’io confortata. Un modo per ispirare a sentirci tutte e tutti sulla stessa barca.
Nei miei fumetti, soprattutto quelli dei primi anni, ho raccolto un sentimento che penso sia universale. Molto spesso quei tipi di sentimenti lì sono considerati di serie B.
Stare male o provare emozioni negative sembra essere un errore, quando in realtà fa tutto parte del processo di guarigione ed è giusto dirlo.
A volte, tagliamo fuori determinati sentimenti perché non sono accettati dalla società, perché dobbiamo essere sempre tutti pronti e positivi. Questo è, secondo me, ciò che molte persone avevano bisogno di sentire, probabilmente. Non da me, ma in generale. C’è un sentimento comune e ciò è servito per guardarci in faccia e dirci “vedete? Non siamo sole – non siamo soli”.
Mi ha colpito molto la vignetta con le farfalle, direi che mi uccide!
View this post on Instagram
La ripropongo periodicamente, è quella che mi ha dato la fama. Tant’è che ancora oggi ogni tanto mi chiamano “quella che caga farfalle” (ride). Ma io me la rivendo ogni tanto questa frase!
Il tuo ultimo libro, la Separazione del maschio: si discosta dai temi autobiografici per parlare di qualcosa di “tossico”. Puoi raccontarmi questo aspetto?
La Separazione del maschio è un’opera con sceneggiatura e disegni miei su soggetto del romanzo di Francesco Piccolo.
Non è esatto definirlo un adattamento, cosa che abbiamo anche concordato con Feltrinelli, perché si tratta proprio di un libro mio. Per la prima volta non ho scelto di essere esplicitamente autobiografica perché, ricordiamoci, chiunque scrive sa che un po’ di sé finirà nei propri libri e io penso di essermi sparsa in piccoli pezzi in tutte le donne che compaiono in quel libro. Sono loro a essere le vere protagoniste del romanzo, ma non dico altro.
Siccome un giorno vorrei fare adattamenti anche di altre opere a cui tengo molto, ho pensato che questo poteva essere un buon inizio.
Pensa che questo libro mi era piaciuto talmente tanto da farmi perdere il treno per leggerne il finale.
Nel mentre, però, sto già lavorando anche a un qualcosa di autobiografico.
Yole, cosa ti lascia senza Niente da Dire?
La misoginia interiorizzata della società. È palese in ognuna ed ognuno di noi, anche quando pensiamo di essere salvi da questi sentimenti. Ad esempio certi ragazzi arrivano a dire “not all men”, quanto non è quello il punto. Questo mi spiazza perché non ci rendiamo conto che esiste una mappa ben visibile di come viene interpretata la società.
Il mio obiettivo è quello di smascherare questa sorta di invisibilità della misoginia interiorizzata. La possiede chiunque perché questa è una società, per me e non solo, misogina che va combattuta. Ciò mi lascia senza Niente da dire, però subito dopo mi rimbocco le maniche e faccio il mio dovere.
E urli?
E urlo!
Miriam Caruso