Un po’ nostalgici, andiamo indietro nel tempo, alla settimana piovosa del Lucca Comics 2023. Il tempo non era dei migliori, ma si passeggiava comunque a fine fiera per le vie del centro. Lucca sembra quel salotto magico dove puoi incontrare per caso vecchi amici che fanno delle fiere un ambiente familiare e accogliente, che tanto suscita nostalgia nei periodi di stacco tra un evento e l’altro.
Proprio qua, davanti a un ristorante del centro, incontro Giovanni Esposito, in arte Gio Quasirosso. Lo conosco da tanti anni, seguo la sua arte e l’evoluzione delle sue illustrazioni da tempo e ne ho sempre apprezzato delicatezza e scelta dei colori.
Così, tra un convenevole e l’altro, concordiamo un’intervista per il giorno successivo.
Strappato dallo stand Feltrinelli, quindi, ci ritroviamo nell’area eventi del Level Up. Parliamo di tutto, dagli albori della sua arte a collaborazioni grandiose, come quelle con Prada e Gucci. Di seguito, la nostra chiacchierata.
Chi è Gio Quasirosso?
Giò Quasirosso è un bambino che, come gli altri, ha iniziato a disegnare e non ha mai smesso.
Parlami del percorso nella ricerca di un tuo stile personale e dei colori della tua palette.
Da piccolo la questione dello stile mi ossessionava tanto. Poi, un po’ una volta, ho iniziato a fregarmene di questa cosa e a concentrarmi su cosa realmente stessi cercando di dire. Quindi ho imparato a dimenticare di fare a tutti i costi la cosa figa e che funziona, spostando il focus su tutt’altro.
Se devi dire ti amo a qualcuno, e lo dici col cuore, non stai attento alla dizione.
Ecco il succo è un po’ questo.
Nella parte pratica, il mio stile l’ho trovato innamorandomi di tanti artisti diversi. Tanti da non rischiare di copiare da uno solo. È stato un mix di molteplici influenze messe insieme.
Le donne che ritrai suscitano un forte impatto emotivo in chi le osserva. Come ne studi la caratterizzazione e, soprattutto, gli ambienti in cui le rappresenti? Sono ambienti particolari, quasi onirici, che partono da una dimensione reale e che si trasforma in altro.
In realtà, da principio rappresentavo il genere femminile per passione, poi mutata in una valvola di sfogo. Mi piace, all’interno delle illustrazioni, disegnarmi come donna magari, esplorando l’altra parte di me. Mi mette molto a mio agio. Per gli ambienti ho una sola costante: che siano ambienti reali.
Poter vedere, in un contesto quotidiano, qualcosa che vada un po’ oltre, che tutto può essere e che sta tutto negli occhi di chi lo guarda. Vorrei allenare le persone a non sottovalutare quello che li circonda, perché spesso tendiamo a desiderare cose super e non ci rendiamo conto che le cose migliori risiedono nella realtà.
Illustrazione, musica, cinema, ispirazioni
In ciò che disegni è forte l’ispirazione della musica, hai anche fatto più di un’illustrazione piena di riferimenti musicali.
Tanto delle mie ispirazioni e di cosa racconto proviene dal cinema e dalla musica. Ben poco, invece, dal mondo del fumetto. Adoro mescolare le varie cose, vedere come interagiscono e comunicano tra di loro.
Torniamo al lato tecnico: ho letto in un’intervista che ti piace il tuo tratto a mano libera per le imperfezioni del tratto stesso. Passando al digitale, però, hai avuto lo scontro con quella patina troppo perfetta che lo caratterizza. Come hai fatto a superare questo scoglio?
Sono due approcci un po’ diversi, perché hanno due effetti collaterali opposti. Quando lavori su carta la paura più grande è quella di sbagliare, perché se sbagli un tratto devi buttare tutto, mentre il digitale, non avendo il problema di sbagliare perché puoi correggere, ha l’effetto collaterale del non sapere mai quando fermarti. In genere quando un disegno è finito dici: ok, basta così. Nel digitale puoi, per assurdo, andare avanti all’infinito.
Sulla parte tecnica, ciò che rendeva vive le mie illustrazioni in analogico erano gli errori. Quindi ho ripreso i miei vecchi disegni, me li sono studiati e ho cercato di capire che cosa sbagliavo, per poi replicare quegli errori in digitale. Sono proprio gli errori a restituirmi quel senso di vivo che, spesso, le cose digitali non hanno.
Ad esempio le colature, le macchie, le linee storte. Quelle robe lì sono i miei errori, mi appartengono in qualche modo. Poi da lì ho elaborato una riflessione filosofica su tutte le cose che ho sbagliato nella vita e che ora potevo riutilizzare diversamente per creare qualcosa di bello. Ciò mi ha fatto bene.
Ai suoi tratti, intelligenza artificiale e futuro
Il tuo libro “Ai suoi tratti” è una narrazione un po’ onirica di un futuro che convive con le intelligenze artificiali.
Si, in Ai suoi tratti ho cercato di immaginare uno scenario in cui le AI non rendessero il futuro distopico, ma trovassero un modo per convivere con l’uomo.
Alla fine, se ci pensi, tutte le rivoluzioni che sono avvenute nell’arte non hanno mai distrutto nulla. Un esempio è l’avvento della fotografia: tutti pensavano fosse la fine della pittura, la fine di tutto. In realtà no, ha solo creato un suo spazio, un suo modo di comunicare.
Il futuro che ho immaginato è un futuro abbastanza presente, ma con note diverse.
Animazione, la seconda vita delle illustrazioni
Parliamo dell’animazione delle tue illustrazioni: ti sei buttato in questo mondo, che affermi ti piaccia molto, ma con umiltà. Come ti approcci nella progettazione dei video, dalla bozza dei disegni fino ad arrivare ad animarli?
L’animazione è un ambito che mi ha sempre appassionato perché, sin da piccolo, sono stato un malato di Disney prima (lo sono ancora in realtà) e di tutta l’animazione giapponese poi.
Inizialmente mi sembrava una cosa impossibile da fare.
Mi ci sono approcciato un po’ più intensamente solo negli ultimi periodi, perché avevo perso un po’ di stimoli. Mi sono accorto che una delle cose che mi dà più stimoli è proprio il non saper fare le cose, il partire da zero nel compiere un percorso. Col disegno ancora non ho imparato tutto quello che vorrei conoscere, ma certo non parto mai dal punto zero.
Invece iniziare con una nuova sfida di cui non so fare proprio nulla, godermi quella frustrazione del “cavolo non lo so fare, mi devo impegnare”, mi sta rendendo un pazzo, perché sto sempre lì a pensare a come animare i miei lavori. Inevitabilmente, ciò ha condizionato anche il mio modo di disegnare. Penso alle illustrazioni già in funzione di come le devo animare, con il risultato che diventano più dinamiche, vive.
Magari passo giorni a fare centinaia di disegni e penso “sono un cretino, ma che sto facendo”, poi premo play, vedo le linee che si muovono e sono felice come un bambino.
Le collaborazioni con Prada e Gucci, come ti sei approcciato a realtà commerciali così grandi?
In realtà la scelta di iniziare a fare anche collaborazioni commerciali è nata dal desiderio di cimentarmi in esperienze diverse. La prima collaborazione è stata quella con Prada.
All’inizio il pensiero mi ha un po’ spaventato, perché quando hai a che fare con realtà così grandi, così importanti a livello culturale, hai sempre la paura di finire un po’ schiacciato. Il fatto che mi abbiano contattato, che abbiano voluto il mio stile senza voler modificare nulla di me è stato un grandissimo onore, perché di base si tratta di una macchina incredibile, sia a livello estetico che funzionale.
Nel dettaglio, con Prada abbiamo fatto un esperimento dove abbiamo accolto dei loro clienti in sede e gli abbiamo fatto un ritratto: da un lato un foglio e dall’altro un oggetto che gli stava particolarmente a cuore. Abbiamo voluto vedere come il racconto dell’oggetto potesse poi influire sul ritratto.
Esperienza simile è stata approntata anche con Gucci, dove il mio lavoro si è legato maggiormente alle storie che le persone vivevano in merito a degli oggetti: nello specifico nei confronti delle borse. Io stavo lì a disegnare queste storie, le raccontavo in piccole illustrazioni.
Sono state due collaborazioni incredibili, anche perché il mondo della moda mi ha sempre affascinato a livello estetico con le sue linee e forme eleganti.
Gio, cos’è che ti lascia senza Niente da Dire?
Oddio non lo so, non ci ho mai pensato. Iniziai a disegnare perché da piccolo non parlavo benissimo. Non che ora io sia un gran narratore, però avevo proprio problemi di linguaggio. Per me il disegno è stata la mia prima forma di comunicazione.
Da piccino, anziché parlare con gli altri bambini, disegnavo e attiravo così la loro attenzione. Quindi, sarebbe come dire: cosa non riesci a dire a parole?
Per assurdo nulla, però sicuramente i fatti che stanno accadendo ultimamente nel mondo – ti parlo delle guerre soprattutto, perché ho avuto delle esperienze personali con la situazione che sta accadendo in Palestina – mi paralizzano.
Questa edizione di Lucca è stata particolare perché a un certo punto è stato come se il mondo avesse chiesto a noi fumettisti di schierarci riguardo tali accadimenti, puntandoci un enorme riflettore addosso. Io ho reagito come un gatto, mi sono paralizzato, perché non sapevo cosa dire e come dirlo: la situazione era talmente complessa che dare una risposta immediata per me sarebbe stata una violenza incredibile, rispettando comunque le scelte di chiunque in merito. Forse questo.
Miriam Caruso