Lucca Comics and Games, luogo in cui convergono tantissime personalità del mondo pop e non solo. Tra i numerosi ospiti presenti in fiera, abbiamo avuto modo di scambiare due parole con Immanuel Casto, pseudonimo di Manuel Cuni.
Un confronto che ha visto il focus incentrarsi sulle dinamiche sociali attuali e sulla normalizzazione della sessualità, oltre che sull’impegno nel mondo ludico dello stesso Manuel.
Di seguito, la nostra intervista in esclusiva per Niente da Dire.
Come nasce il personaggio: Immanuel Casto?
Il mio personaggio è nato per gioco, per ricollocarci nell’ambiente in cui ci troviamo.
Io sono nato come troll ante litteram, quando ancora non si usava questa parola. Una sperimentazione in cui volevo che le persone si chiedessero: “oddio, ma ci è o ci fa?”, lasciarle nel dubbio, nonostante curassi l’aspetto tecnico al meglio delle mie possibilità. Poi con il tempo ho iniziato a mettere sempre più persona nel personaggio e quindi questa sperimentazione è diventata un vero e proprio lavoro.
Da una provocazione più grassa mi sono evoluto in una tipologia di satira.
Tutto nasce, quindi, come un gioco in cui ho creato un alter ego per vedere cosa sarebbe successo, sperimentando con i mezzi dell’epoca. Ora, sono cose anche difficili da spiegare, perché c’è stata un’evoluzione tecnologica non indifferente e che è diventata parte della nostra quotidianità. Ma al tempo il solo fatto di avere un blog con degli mp3 in streaming mi valeva degli articoli come innovatore tecnologico.
Normalizzazione della sessualità nel contesto sociale
Dai giochi da tavolo alla musica, hai sempre portato avanti il concetto di normalizzazione sessuale all’interno della società, parlamene.
Con il mio stile, che consiste nel parlare apertamente delle cose e, quando è possibile e appropriato al contesto, con l’umorismo.
La comunicazione passepartout, come dico sempre, non esiste, non c’è un modo giusto di parlare di certi argomenti, perché dipende da molti fattori. Uno di questi è il contesto. Ma nel contesto artistico a me piace darmi tantissima libertà e riuscire a portare un messaggio importante facendo sorridere, che secondo me è veramente liberatorio.
Lo vedo anche nei miei concerti, dove uso le mie canzoni per condannare le cose, interpretandole in prima persona. Per il pubblico fare la stessa cosa diventa molto, molto liberatorio.
Mi piace particolarmente questo termine, “normalizzare”, rispetto al vedere la sfera della sessualità come un qualcosa di torbido, da vivere in maniera occulta, nonostante sessualità e affettività, che sono spesso collegate tra di loro, abbiano poi un impatto enorme sulla nostra qualità di vita.
Quindi può essere anche uno spunto razionale per chi ti ascolta nel dire: “questi concetti e questi muri imposti dalla società vanno contro quello che sono io come individuo”.
È così, o perlomeno possono andare contro. Nel momento in cui si parla di società sessofobica, questo diventa un problema per tutte le persone, d’accordo. Ma le volte in cui, invece, si può parlare di sessualità vengono stabiliti dei criteri. Come, ad esempio, la monogamia. È già tanto che ti viene concesso di parlarne e se lo fai devi aderire entro certi standard, altrimenti sei sbagliato.
Ora, ci sono persone che in maniera naturale aderiscono, come ovviamente ci sono tante persone che sono eterosessuali. Tante persone hanno una legittima preferenza per la monogamia e non è, naturalmente, da combattere: questo è importante che venga riconosciuto.
Il fatto è che queste sono preferenze e poi ne esistono tante altre che, invece, non si sentono rappresentate in una narrazione stereotipata. Andrebbe a vantaggio di tutte le persone, invece, abbracciare la possibilità di essere sé stessi.
Immanuel Casto da giocatore a ideatore di giochi
Parliamo di te come giocatore di giochi da tavolo: si parte da una passione privata che successivamente ti ha spinto a creare un gioco che potesse essere quello che avresti voluto giocare. Portando, anche, avanti determinati concetti sociali. Come è avvenuto questo passaggio?
Il primo gioco non è nato con le riflessioni che tu hai fatto, quelle sono arrivate dopo.
È stato per mio divertimento personale. Ho inventato un gioco con un umorismo che piaceva a me, per giocare con i miei amici. È stato il mio manager che quando lo ha visto mi ha detto: “ma sai che forse questa cosa si potrebbe commercializzare?”.
Così è nato il primo Squillo e ha avuto molto, molto successo. Da lì ho iniziato a formarmi tecnicamente sul game design e a mettere a punto anche una visione su quello che stavo facendo. Ma all’inizio è nato in maniera spontanea e questa cosa per me si sente a livello artistico. È chiaro che poi, quando ne si fa una professione, subentrano un sacco di considerazioni commerciali, ci mancherebbe, però quello slancio iniziale di estro fa, fa e si vede quando c’è. Per me è sempre stato così.
“Non si può più dire niente”. Un gioco che porta, a livello di meccaniche, a una sorta di critica sociale, ritorna quindi ancora una volta questo concetto. Raccontami l’evoluzione di questo gioco da tavolo, dall’edizione precedente alla nuova appena rilasciata: cosa cambia?
Il gioco è lo stesso, ha un sottotitolo che è “Indignazioni perenni” e la funzione principale di questa nuova uscita è che è giocabile singolarmente, quindi chi si vuole approcciare può partire anche da questa edizione e, anzi, avrebbe il beneficio di trovare dei contenuti e riferimenti all’attualità più moderni.
È un gioco che funziona molto sulla varietà e quindi più componentistica si ha e più diventa divertente l’esperienza di gioco. Le differenze, rispetto al primo capitolo, sono le tematiche trattate dove in questo gioco, come tu hai accennato, si fa una satira a 360° sulle interazioni sui social, su quello che dovrebbe essere un dibattito ma che spesso si riduce in sciacallaggio. Uno scannarsi giusto per dire qualcosa.
Alcuni temi, purtroppo o per fortuna, sono universalmente controversi, però ci sono riferimenti all’attualità che cambiano, perché è un gioco che, per certi versi, si scrive da solo. Io devo solo appuntarmi quelle cose per cui ci scanniamo per due giorni per poi dimenticarcene completamente.
A livello di meccaniche le novità sono alcuni ruoli inediti, perché è anche un gioco di identità nascoste, e la possibilità, quando si forniscono gli indizi che sono delle frasi tormentone scritte su dei biglietti, di taggare le altre persone al tavolo.
Es: a tag non piace questo elemento. Quindi diventa tipo “a Martina – citando una persona al tavolo – non piace questo elemento”.
Viene così espanso un aspetto di interazione sociale.
Ultima domanda, Manuel cosa ti lascia senza Niente da dire?
Molte cose, dovendo sceglierne una direi la presunzione, molto diffusa, di sapere che cosa pensa, che cosa sente una persona o addirittura che cosa vorrebbe dire.
Le volte in cui mi capita di parlare pubblicamente di temi controversi, è assolutamente legittimo che qualcuno abbia opinioni diverse dalle mie. Ci mancherebbe. Mi lascia senza parole, però, la formulazione: “dovresti avere l’onestà di dire che” seguita da quello che pensano loro. Io non so come commentare! Non “secondo me è così”. È come se stessero dicendo che io, in realtà, la penso come loro, ma non ho l’onestà di dirlo. Da dove parto a commentare questa cosa? Questo mi lascia senza parole.
Miriam Caruso